A Giancarlo Pajetta, “il ragazzo rosso” che ci ha detto addio trentanni fa, dobbiamo tutti profonda gratitudine. Dobbiamo gratitudine alla sua vita e al suo esempio, alla sua passione civile e alle sue lotte, al suo essere rimasto comunista per tutta la vita e al suo non essersi mai arreso all’andamento di un mondo che già allora sprofondava sempre più nell’abisso. E se oggi l’Italia è un paese ancora vagamente civile, lo si deve soprattutto a uomini come lui: personalità che hanno scritto la storia della Repubblica, le pagine più significative del nostro stare insieme e indicato una strada, un metodo, un modello di sviluppo da seguire.
Di Pajetta ricordiamo la lotta partigiana, la Resistenza, la sua intransigenza morale, il suo sincero anti-fascismo, il suo essere pronto a sacrificarsi per gli altri, il suo aver rischiato tutta la vita molto, sempre in prima persona, per sostenere le idee in cui credeva e anche la tempra d’acciaio, il temperamento forte, gli sfoghi, le urla, il carattere aspro e, al tempo stesso, dolcissimo.
Pajetta era un piemontese atipico, un militante che aveva conosciuto la Torino degli anni Venti, la stagione di Gobetti e dell’Ordine nuovo di Gramsci, gli scioperi nelle fabbriche, il Comintern e la Russia degli anni immediatamente successivi alla Rivoluzione d’ottobre. E quella storia, quell’avventura umana prim’ancora che politica se l’è portata dietro fino all’ultimo giorno, conservandone l’entusiasmo, lo slancio verso il domani e anche la tragedia. Pajetta appartiene, infatti, alla generazione che ha subito ogni sopruso e patito immani sofferenze per la propria opposizione al regime.
A partire dal dopoguerra, è stato, per quasi mezzo secolo, un protagonista di primo piano della vita del PCI e dei delicati equilibri della politica italiana, opponendosi alla fine alla svolta occhettiana, della quale è stato uno dei massimi oppositori.
Se ne andò senza vedere il seguito, il declino dell’ultimo trentennio, il degrado straziante che ha travolto la sinistra Italiana, le cui cause forse devono essere ricercate anche in quel cambio di nome che fu molto di più, ben oltre le intenzioni di Occhetto, il quale probabilmente non aveva capito che dietro quel cambio, apparentemente innocuo, c’era la diffusa idea, da parte del gruppo dirigente, di accantonare una storia e una visione del mondo, compreso lui.
Di Pajetta ci mancano il coraggio, la visione, la lungimiranza ma, più che mai, la sua concezione pura della politica, ormai quasi completamente perduta, con le conseguenze che sono sotto gli occhi di tutti, tra cui la scomparsa di quel modo ruspante di intendere la battaglia politica e i rapporti con gli altri che ha favorito l’ascesa della tecnocrazia e la disillusione dei cittadini.
Pajetta, trent’anni dopo. La certezza è che questo mondo e questa politica gli farebbero schifo.
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