Quando parliamo di crisi dimenticate, la mente corre verso luoghi remoti e lontani come l’Afghanistan. In realtà il perverso meccanismo che porta i media e la politica (il rapporto di causa ed effetto sceglietelo voi) a dimenticare crisi che racchiudono tutte le contraddizioni del contemporaneo, si applica benissimo anche a luoghi a noi vicinissimi.
E’ il caso dello scandalo di Moria, sotto gli occhi di tutti ma dimenticato per anni. Moria è un villaggio sulle colline di Lesbos, isola che è il primo approdo in Europa per afghani, iracheni, siriani ma si è trasformata anche nell’ultimo stadio della civiltà europea. Il nome del villaggio è diventato quello di una vicina basa militare, riadattata per ospitare meno di 3000 migranti in transito.
Nel 2015, anno dei record, a Lesbos sono arrivate un milione di persone ma, paradossalmente, la situazione non è mai stata così grave come nell’ultimo anno. Perchè? Nell’estate del 2019, in Grecia, il centro destra ha vinto le elezioni grazie alle sue politiche anti-migranti, una grande arma di distrazione di massa nel Paese dove due terzi della popolazione è povera o a rischio povertà. I trasferimenti dalle isole alla terra ferma sono stati fermati, i migranti sono rimasti bloccati a Lesbos. A Moria si è arrivati a 20mila presenze, quasi sette volte i posti ufficiali.
La baraccopoli cresciuta intorno all’ex-caserma è diventata un luogo dell’orrore, con condizioni di vita disumane. Un sovraffollamento che ha creato tensioni fortissime tra governo e residenti tanto che negli ultimi mesi, in sordina, i trasferimenti sono ricominciati e nel campo si è passati circa 13mila presenze.
Per il governo greco, nel marzo scorso, il covid diventa la scusa per trasformare il campo in una prigione a cielo aperto, per circa sei mesi l’area di Moria viene messa sotto lockdown con un massimo di 120 persone autorizzate ad uscire (per esempio per andare in ospedale) ogni giorno.
Il paradosso diventa ancora più enorme, quando il covid arriva a Lesbos ad agosto per i comportamenti irresponsabili di due parroci negazionisti. Il due settembre arriva anche a Moria e a portarlo, anche in questo caso, non sono gli sbarchi ma un somalo che dopo aver ottenuto lo status di rifugiato si era trasferito ad Atene: di fronte ai programmi di accoglienza smantellati, ha scelto di tornare a Moria, ormai per lui una casa.
Scoperto il caso, dal lockdown si passa ad una rigida quarantena e, nella notte dell’8 settembre, il campo viene incendiato. Un rogo di sicuro doloso, in una notte di vento forte e con punti d’innesco multipli. Il governo greco accusa un gruppo di migranti ma non offre prove, probabilmente si tratta di una banda che nel campo senza acqua potabile, bagni né legge, compiva stupri ed estorsioni.
Così la “bomba” di Moria è esplosa ma dire “sono stati i migranti” significa colpevolizzare tutti, significa giustificare l’assoluta mancanza di provvedimenti minimi d’assistenza nei giorni successivi all’incendi, significa cancellare le responsabilità del governo greco, significa dimenticare l’indifferenza dell’Europa.
I veri colpevoli di Moria non sono solo gli “ultimi”, quelli contro i quali è sempre facile puntare il dito. L’informazione dovrebbe ricordarlo ai potenti di turno perché in gioco non ci sono solo le vite di 13mila persone ma i diritti di tutti e le responsabilità di chi ci comanda.