«A chi aveva promesso sicurezza e vita, avete fallito» con queste parole inizia la lettera indirizzata alle più alte cariche dello Stato del figlio 20enne di Luigi Bonaventura, ex boss della ‘ndrangheta e oggi collaboratore si giustizia.
«Vivo sotto programma da quasi 14 anni – si legge nella lettera – ma è da 7 almeno che ho iniziato per davvero a comprendere quel che vuol dire, comporta e limita. È da 14 anni che io e la mia famiglia veniamo presi, spostati in un’altra città, senza conoscenze, appigli o aiuti, ripresi nuovamente, sballottati come giocattoli nelle mani di bambini viziati. Mi sento come un cane pronto per essere soppresso» scrive ancora il figlio di Bonaventura.
Il figlio di Bonaventura, il cui nome non può essere rivelato, ma sappiamo che si fa chiamare Nemo, vorrebbe frequentare l’Università ma non gli è permesso farlo nella località protetta dove vive perché dovrebbe utilizzare il suo cognome originale. Cosa che peraltro è già avvenuta durante tutti gli anni di liceo. Ma questa volta gli viene impedito.
Nel caso in cui dovesse andare al di fuori dalla provincia non gli sarebbe più garantita la protezione. In alternativa, prosegue il figlio dell’ex boss Bonaventura, lui e tutta la sua famiglia dovrebbero nuovamente trasferirsi ed utilizzare un documento di copertura che, tiene a precisare, non avrebbe nulla a che fare con un cambio definitivo delle generalità e non garantirebbe l’iscrizione all’Università della nuova provincia protetta.
«potrei avere un nome di copertura, ad esempio Rossi, dietro al banco dell’Università e Bonaventura fuori dalla provincia universitaria». Per anni il ragazzo ha vissuto in queste condizioni di ‘doppia identità’ con nomi di copertura a seconda dell’evenienza, in una condizione surreale e confusa che ha messo anche a repentaglio la sua sicurezza.
Da quando aveva 6 anni ha lasciato la Calabria con la sua famiglia e da allora ha vissuto un’esistenza diversa dai suo coetanei, cambiando in continuazione casa, scuola e identità ma mai nulla di definitivo. Questa esistenza complicata solo per avere la ‘colpa’ di essere figlio di un ex ‘ndranghetista «vengo bollato come un mafioso – si legge nella lettera – pur non avendo mai avuto alcun coinvolgimento con le ormai passate azioni di mio padre» il ragazzo infatti aveva solo 6 anni all’epoca, era ancora un bambino.
Da qui la decisione di lasciare l’Italia e rinunciare al programma di protezione, forse per ritrovare un po’ di normalità e per continuare a studiare.
La lettera, più che una reale intenzione di lasciare il suo Paese, sembra un vero e proprio appello alle istituzioni, una richiesta di aiuto indirizzata alla ministra dell’Interno Luciana Lamorgese, al Servizio centrale di protezione e alla Commissione centrale con delega ai collaboratori e testimoni di giustizia, presieduta da Vito Crimi e per conoscenza anche al presidente della Repubblica Sergio Mattarella, al premier Giuseppe Conte, al senatore Nicola Morra che presiede la commissione parlamentare antimafia, al capo della Dna Federico Cafiero de Raho e a quello della procura di Catanzaro Nicola Gratteri.
Quell’aiuto mancato che per anni lo ha fatto sentire in pericolo ma anche diverso dagli altri, ‘un oggetto’ come cita nello scritto «sono un essere umano, non un oggetto, una cosa da lasciare su un mobile e spostare più o meno a seconda della convenienza.
Ho quasi 20 anni, sono obbligato ad essere però un peso, impedito a diventare un uomo autonomo con la propria vita. Qui in Italia io non vivo oggi e non vivrò domani. Comunico con enorme, sentita e provata tristezza, che entro la metà di questo mese, dall’Italia io parto per l’estero verso una reale possibilità di lavoro, di studio, di sicurezza e di vita. Nella speranza che le cose cambino per me, la mia famiglia e tutti i protetti, nella speranza di poter tornare un giorno in sicurezza in Patria, per il momento, addio».
Tutta famiglia di Bonaventura è in programma di protezione mentre Luigi, l’ex boss, nonostante continui la sua collaborazione, è uscito dal programma e al momento ha la scorta solo per impegni di giustizia.
Nel dicembre 2011 Bonaventura chiede di non rinnovare il contratto speciale di protezione alla data naturale di scadenza il 31 dicembre dello stesso anno.
«Volevo la risoluzione del programma. Dopo numerose raccomandate alle quali non hanno mai risposto, a distanza di 3 anni, a contratto scaduto mi hanno contestato interviste non autorizzate e disposto così la revoca o “non proroga” del programma di protezione a ottobre 2014». A dicembre 2014 gli arriva una prima condanna definitiva, 5 anni e 10 mesi e va in carcere, ma continua a collaborare, mentre la sua famiglia rimane senza protezione «hanno buttato due famiglie in mezzo ad una strada, una condanna a morte. Ci siamo rivolti al TAR e al Consiglio di Stato che nel maggio del 2015 ordina al sistema di mettere subito nel massimo livello di protezione sia la mia famiglia che me fino a quando non avrei terminato gli impegni di giustizia. A questa sentenza andavano anche i pareri della Dda che sosteneva quanto la mia famiglia fosse gravemente in pericolo per i nomi di famiglie e affiliati che avevo fatto arrestare.» A novembre 2015 arriva il nuovo programma di protezione per la moglie, i figli, il padre, la madre e i due fratelli della moglie.
Nonostante Luigi continuasse a collaborare con la giustizia, non viene incluso nel programma di protezione «siccome ero in carcere ero considerato al sicuro» – racconta – “tu sei carcerato, non ti tocca nessuno e abbiamo segnalato la tua posizione due volte al DAP. Continua a fare la tua collaborazione che quando uscirai le nostre determinazioni potrebbero cambiare” mi dicevano».
Non solo esce fuori dalla protezione ma finisce in un carcere con minore sicurezza «Mi hanno messo in ‘seconda fascia’ nel carcere dove c’era meno sicurezza, da Paliano mi hanno trasferito a Campobasso. Da Campobasso poi a Pescara, sempre in seconda fascia, da li ho scontato le pene che mi rimanevano e sono uscito a fine pena a marzo del 2018».
Luigi è l’ex reggente della cosca Vrenna – Bonaventura di Crotone, ha fatto rivelazioni a 14 Procure sparse per l’Italia e continua ad essere utilizzato da varie Dda nelle nuove inchieste e nei processi in corso.
Mentre tutta Italia era in pieno lockdown, lo intervistai in una località segreta per la trasmissione “Non è l’Arena” di Massimo Giletti in onda su La7. «C’è gente che sta in galera che non aspetta altro di uscire per vendicarsi – lanciava così l’allarme sul pericolo scarcerazioni a causa del covid19 – Se la mafia si rinforza con uomini che erano carcerati diventa ancora più pericolosa. I pericoli sono enormi e non escludo vendette nei confronti dei nemici della ’ndrangheta e delle mafie. I nemici possono essere magistrati, collaboratori di giustizia ma anche giornalisti. Le assicuro che le mafie, in particolare la ‘ndrangheta non hanno paura di morire di covid19, in questo momento è un loro amico il covid19».
Quest’estate Bonaventura è stato al centro di nuove minacce, come quelle che gli sono arrivate via social da due ex affiliati, imputati e condannati nel processo Herakles: «ricevo minacce sui social quasi tutti i giorni – racconta – messaggi di una certa portata anche da parte di persone che ho fatto arrestare e che sono uscite. Tra le più eclatanti, e parliamo di diversi mesi fa, due giorni prima di una manifestazione a Catanzaro, il giornalista Giulio Cavalli viene avvicinato e con fare minaccioso alcune persone gli mandano i saluti per me. “Portagli i saluti di zio Pino”»
Luigi e la sua famiglia dal 2014 chiedono il cambio di generalità definitiva «non è mai arrivata alcuna risposta» denuncia Bonaventura «i miei famigliari sono facilmente individuabili. Non sono sufficientemente protetti. Io seguo tutti i criteri di sicurezza perché il bersaglio dovrei essere io, ma i miei figli sono in pericolo perché vanno a scuola con il nome originale, infatti basta andare sul database nazionale delle scuole per trovarli. Dicono che ogni 30 gg li oscurano, ma sono rintracciabili».
Secondo Bonaventura i collaboratori di giustizia e le loro famiglie non sono sufficientemente tutelati, per questo motivo di recente ha più volte annunciato di voler lasciare la collaborazione. «Il Servizio Centrale di Protezione (tramite il NOP) ci ha comunicato che la normativa impedisce a mio figlio di andare all’Università della località protetta perché non possono oscurare i dati. Ma se va ad esempio in una località fuori provincia è rintracciabile e potrebbero ammazzarlo. E se malauguratamente dovesse succedere, siccome non era in località dove ha diritto alla protezione, non si può nemmeno reclamare perché non era sotto loro responsabilità. Mandare mio figlio lontano con nome e cognome vero significa metterlo in pericolo.»
Per portare avanti le istanze in difesa dei diritti dei collaboratori e testimoni di giustizia e delle loro famiglie Lugi Bonaventura insieme ad altri collaboratori ha costituito l’associazione “Sostenitori dei collaboratori e testimoni di giustizia” ( link https://www.facebook.com/Comitatodiritticdg
La sicurezza della famiglia è la sua preoccupazione principale «loro sanno che io e mio figlio possiamo morire da un momento all’altro».
«Ha vinto lo Stato deviato su di me, non la ‘ndrangheta. Smetto di collaborare se le cose non cambiano. C’è una parte di Stato deviato che non si prende cura dei collaboratori per scoraggiare eventuali altri potenziali collaboratori di più alto livello, come ad esempio un Graviano, a collaborare con la giustizia affinché non parlino. Siamo un paese al cinquanta percento mafioso e corrotto. Alcuni lo fanno anche per sopravvivenza o per difesa, ma anche negli ambienti più sani trovi un alto tasso di mafiosità o qualche imbroglio. Questo Paese è seriamente contaminato»
E così Luigi, padre, è costretto vedere suo figlio trasferirsi all’estero «la cosa grave e assurda di questo Paese è che mio figlio è obbligato ad andare all’estero per studiare e vivere in serenità e sicurezza, invece quelli al 41bis, i mafiosi non ravveduti, sono andati a casa con la scusa del covid19 e molti di loro sono ancora fuori».
«La ‘ndrangheta ha ucciso al mio nascere il sogno di studiare ma una parte di Stato quello di mio figlio».