La torta da spartire

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Il 25 agosto 2012, all’indomani del devastante terremoto che colpisce l’Emilia-Romagna e in particolare le due province di Modena e Reggio Emilia, Gianni Floro Vito, condannato nel primo grado di Aemilia, telefona all’amico Giuseppe Giglio, oggi collaboratore di giustizia, e gli chiede: “Posso inserirmi?”. L’intercettazione telefonica è richiamata giovedì 10 settembre, alla ripresa del processo d’Appello nell’aula bunker della Dozza di Bologna, dopo la pausa estiva, dal Procuratore Generale Lucia Musti, che sostiene le ragioni dell’accusa.

Ma dove vuole inserirsi l’uomo residente a Cadelbosco Sopra (RE), oggi 42enne, che secondo il collaboratore Antonio Valerio è uno dei “quattro amici al bar” capaci di tramare, commettere violenze e condizionare i testimoni del processo anche dopo essere finiti in galera con gli arresti del 2015 (gli altri tre sono Gianluigi Sarcone, Sergio Bolognino e Pasquale Brescia)?

La stessa Lucia Musti lo spiega con una popolare espressione: “C’è una torta da mangiare”, una torta che si chiama ricostruzione post terremoto. Preparata grazie, dice ancora con una efficace sintesi il Procuratore Generale: “Ai benefici economici che arrivano alla consorteria partendo dalla condizione di bisogno e di minorata difesa dei lavoratori, sfruttati e minacciati”. Gianni Floro Vito la sua fetta di quella torta è disposto a pagarla mettendo a disposizione della consorteria un bel gruppo di lavoratori da smistare nei cantieri: “Posso fornire 12 operai”, spiega a Giglio in quella telefonata. 12 persone che andranno poi a lavorare per la rinomata ditta Bianchini Costruzioni srl di San Felice sul Panaro, della omonima famiglia modenese oggi a processo assieme ai mafiosi con i quali secondo l’accusa faceva affari.

Questo pezzo della vicenda processuale di Gianni Floro Vito fa parte del capitolo vergognoso delle infiltrazioni mafiose nelle attività del post terremoto. Vergognoso non tanto perché i mafiosi si comportano da mafiosi, ma proprio perché tanti pezzi della società cosiddetta civile mostrano di non avere particolari scrupoli a confrontarsi con loro per trarne benefici.

La catena dell’arricchimento illecito raccontata in Aemilia è tutto sommato semplice. Gianni Floro Vito (e Michele Bolognino e altri…) fornisce la mano d’opera alle società di costruzione; le società pagano in cambio false fatture emesse dalla cosca (ai lavoratori la Bianchini consegna solo false buste paga ma non i soldi); il ricavo della cosca, dopo gli opportuni passaggi di mano (per far perdere le tracce), viene depositato su conti correnti bancari e postali (in questo caso a Posta Impresa di Reggio Emilia grazie alle relazioni di amicizia tra la direttrice Loretta Medici e lo stesso Floro Vito); il contante prelevato infine dai conti correnti viene in parte usato per pagare i lavoratori in nero mentre il resto rappresenta la “torta da spartire”. Tutti ci guadagnano, solo i lavoratori ci rimettono. Perché la piccola fetta che viene loro data è spogliata dei soldi della cassa edile, dei buoni pasto, di false visite mediche, del riposo settimanale, della nafta per i camion usati nei cantieri, dell’indennità di mancato preavviso. E chi si lamenta viene licenziato o minacciato.

Il caso più clamoroso è quello dei cantieri a Finale Emilia, dove nella catena si inseriva anche la compiacenza del dirigente comunale Giulio Gerrini (condannato in via definitiva a 2 anni e 4 mesi) nell’aprire corsie preferenziali per gli appalti alla Bianchini. Ma Aemilia ci racconta anche altre storie di sfruttamento congiunto (imprese/mafia) dei manovali e dei muratori. Dice ad esempio in udienza in primo grado il collaboratore Salvatore Muto riferendosi ad una grande impresa genovese agganciata sempre da Gianni Floro Vito: “Alla BRC di Genova si facevano gli stessi discorsi come sono stati fatti nella Bianchini, anzi di peggio. Ci ha chiamato Floro Vito Gianni e siamo andati a fare i lavori. Anche io. Era una ditta buona. L’avevamo conosciuta in Emilia-Romagna nel post terremoto. Avevamo già fatto dei lavori per lei e qualche falsa fatturazione. Ci assumevano per tre giorni la settimana, poi ci licenziavano e ci riprendevano. Ma eravamo obbligati a lavorare tutta settimana, anche alla domenica. Ci pagavano a metro di costruito e poi ci davano il fuori busta. Questa azienda è grossa ma lavora male, di sicurezza non se ne parla. Se fosse stato per me li prendevo a calci e me ne andavo”.

Parola di ex mafioso.

Gianni Floro Vito è stato condannato in primo grado sia per appartenenza all’associazione mafiosa che per reati specifici commessi negli anni indagati dalla inchiesta. In carcere, dopo gli arresti del 2015, durante una partita di calcetto nell’ora di ricreazione si scontra con l’altro imputato di Aemilia Gabriele Valerioti. Al termine dell’incontro, racconta Antonio Valerio e riporta l’accusa, Floro Vito utilizzando un coltello artigianale realizzato con il coperchio di una scatola di tonno, sfregia Valerioti durante una rissa. Lo sfregio, dice la procuratrice Musti, “è il simbolo della affermazione del rango criminale superiore; serve a ristabilire la gerarchia, attraverso la prevaricazione e la violenza”.

Ma in carcere gli scontri e le violenze tra detenuti sono pane quotidiano, dicono i difensori, e non può certo bastare quello sfregio, ammesso e non concesso che sia stato Floro Vito a provocarlo, a decretare l’appartenenza alla cosca mafiosa.

Gli avvocati difensori hanno attaccato il Tribunale di Reggio Emilia che ha emesso la sentenza di primo grado. Dice Giuseppe Migale Ranieri: “L’istituto della assoluzione non rientra tra le opzioni del Tribunale di Reggio Emilia” colpevole, a suo dire, di non avere verificato l’attendibilità del collaboratore Antonio Valerio. Attendibilità di cui dubita, sempre a suo dire, anche la Procura Generale. Riferendosi alla dott.ssa Musti che aveva appena concluso la requisitoria, dice Migale Ranieri: “Il Procuratore Generale sa che i collaboratori non sono credibili; l’ho vista in difficoltà perché sa in cuor suo che contro Gianni Floro Vito non c’è niente”.

Intanto, in cuor suo, il Procuratore Generale Lucia Musti aveva appena chiesto per l’imputato la condanna a 18 anni di carcere: 14 per il Capo 1, appartenenza alla cosca autonoma di ‘ndrangheta operante in Emilia Romagna, e 4 per l’aggravante della continuazione.

Si torna in aula martedì 15 settembre trattando i casi di un’altra importante famiglia messa sotto accusa dal processo Aemilia: i Bolognino. Per altri membri della famiglia Floro Vito si tornerà invece al confronto tra le parti davanti al Collegio dei giudici (Pederiali, Passarini, Silvestrini) nel mese di novembre.

La torta da spartire – ER.CGIL.it – CGIL Emilia-Romagna


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