In una scena de La grande illusione di Jean Renoir l’ufficiale tedesco Von Rauffenstein – interpretato memorabilmente da Erich von Stroheim – è fermo alla finestra. Sul davanzale spicca il suo amato geranio: l’unico fiore della fortezza di Wintesborn. “Qui attorno – aveva detto – non crescono che ortiche”. Quel fiore diventa l’unica presenza degna della vita nel contesto orrendo della guerra e della morte. Una briciola di felicità: Natura contro barbarie. Anche il Little Joe dell’omonimo film di Jessica Hausner è un fiore bellissimo. Ma è un fiore ibrido, artificiale, un organismo modificato geneticamente in una serra da una équipe di biologi della multinazionale Planthouse. “Little Joe” è un progetto ambizioso e rivoluzionario: attraverso il suo profumo è in grado infatti di suscitare empatia e felicità: deve infatti alle sue alterazioni genetiche la capacità di produrre ossitocina, un precursore dell’umore umano. Mamma di questa meravigliosa mostruosità è Alice, una biologa algida e compita, quasi anaffettiva (nei suoi panni Emily Beecham ha vinto il Prix d’interprétation féminine a Cannes nel 2019) tanto efficiente in camice bianco quanto distaccata con il resto dell’équipe con cui lavora. Una stacanovista che ha occhi solo per la serra e il suo fiore da laboratorio e un amore forse un po’ tiepido per il giovane figlio Joe, che vive con lei.
Alice in fondo, nonostante sia separata, sperimenta tutta l’antinomia tra “carriera” e “famiglia”: non vorrebbe incrinare il rapporto tra il figlio (che sottrae al padre lontano) e i successi che la sua creatura – il piccolo Joe appunto – potrebbe dischiuderle. Per questo, violando tutti i regolamenti, decide di portarne a casa una piantina da regalare al figlio. Anche se il film – a dire della stessa regista – “è la storia di una madre tormentata dal senso di colpa per il tempo che dedica al lavoro trascurando il proprio piccolo”, “Little Joe” innesca ben altre riflessioni. Innanzi tutto la questione della manipolazione genetica, dell’alterazione dell’equilibrio nella biosfera, dell’opposizione vero/simulacro – che dopo il Frankenstein di Mary Shelley già Philip K. Dick aveva scandagliato in letteratura con spaventosa preveggenza – in una società asservita alla tecnologia e alla merce nella quale tutto può essere trasformato (anche gli umani). C’è poi l’onnipotenza del lavoro – Alice, in pratica, non ha una vita sociale – che subordina ai suoi imperativi ogni risorsa personale, sacrificando pure gli affetti e le relazioni: Alice, per esempio, rifiuta la corte discreta del giovane collega Chris (Ben Whishaw). Inoltre è una scienziata, vende alla Planthouse la sua capacità di pensare e di produrre idee. Qui il Lukács che aveva teorizzato la reificazione del lavoro intellettuale è letteralmente oltrepassato: poco a poco, Alice non possiede più il suo cervello per il tempo che trascorre al lavoro perché “Little Joe” lo reifica ovunque: la coscienza di Alice e degli altri protagonisti diventa un oggetto di cui la pianta può disporre. Infine, ma non ultima, la questione dell’incontestabile potenza della leggi della Natura: seppure creata per non riprodursi, Little Joe reagisce incredibilmente alla propria sterilità trovando nuovi modi per prolificare, diffondendo col suo polline – una sorta di patogeno – una nuova coscienza indotta dalla pianta – che provoca la fusione mentale emotiva con chiunque ne venga a contatto. Little Joe infatti interferisce col sistema limbico, la parte del cervello che influenza i nostri sentimenti, il comportamento e la personalità. Lo stesso Joe muta atteggiamento nei confronti di Alice: diventa distaccato, lontano: assente. Tutti quelli che vengono a contatto con Little Joe non cambiano solo apparentemente: solo impersonano se stessi. Ancora una volta i riferimenti alla letteratura cinematografica relativa a esseri alieni che si impossessano mentalmente e fisicamente degli umani non possono non richiamare, su tutti, da un lato il Don Siegel de L’invasione degli ultracorpi, dall’altro Essi vivono e La Cosa di Carpenter. Pur appartenendo dunque al genere, Little Joe fortunatamente se ne distacca perché rigetta ogni spettacolarizzazione, le continue spannung tipiche della fantascienza barocca dei nostri tempi, satura di effetti speciali. Non solo: in Little Joe non c’è narrazione di scienziati che precipitano nella follia (come per esempio Otto Octavius-Dottor Octopus) poiché l’idea di fondo che poco a poco prende forma è quella di una società già alienata, almeno nei protagonisti, risucchiati letteralmente dalla loro occupazione. Le case, le loro stesse esistenze sono spersonalizzate come il loro laboratorio, sterili, fredde. Mai niente fuori posto in queste vite troppo linde insomma, come se fossero appena uscite dal cellophane: la splendida scenografia di Katharina Wöppermann lo sottolinea assai efficacemente. Little Joe annienta la carica ironica da commedia nera de La piccola bottega degli orrori (il film di Frank Oz è del 1986) in cui la protagonista è Audrey II, una pianta carnivora, per trasformarsi in un avanguardistico fito-laboratorio di un mondo in cui l’industria si avvia ormai a produrre artificialmente sentimenti per venderli. In questo diffuso non-luogo anche la cena si riduce alla consumazione meccanica di cibi da asporto perfettamente inscatolati. E forse anche la terra si è tramutata in un grande laboratorio in cui ri-creare i sentimenti. Un non-luogo diffuso, asettico e rigidamente programmato (L’uomo che fuggì dal futuro di George Lucas non è stato girato invano) in cui gli atteggiamenti meno uniformi diventano sospetti, eversivi: quelli di Bella per esempio (Kerry Fox), la collega di Alice considerata un po’ matta, che aveva esposto i suoi dubbi su “Little Joe” prima della sua definitiva assuefazione al fiore. Anche il commento musicale minimalista del compositore giapponese Teiji Ito giova ad una struttura narrativa che pare ricordare le movenze del teatro kabuki e in cui la tensione emotiva non esplicitata dai dialoghi (la regista ha scritto a quattro mani la sceneggiatura con Géraldine Bajard) è per contrasto altissima. “Ho lavorato per la prima volta su una musica preesistente – ha dichiarato la regista – ma che funziona davvero come una musica da film”. Grazie poi alla fotografia nitida e iperrealistica di Martin Gschlacht resa ancora più antifrastica dalla scelta spiazzante dei colori tenui – se si esclude l’affascinante e sinistro vermiglio del fiore – “Little Joe” cova le sue uova maligne senza apparenti sussulti: e la sua sottile ma costante inquietudine – qualcosa di non detto che aleggia per tutta la durata della storia – culmina in un finale senza scampo. E allora, quanto siamo disposti a sacrificare per una felicità artefatta?