Troppo grandi per vivere a lungo, troppo complessi, controversi, irriverenti, utopistici, folli e assolutamente fuori dagli schemi: Jimi Hendrix e Janis Joplin morirono mezzo secolo fa, a soli ventisette anni, accomunati dallo stesso tragico destino.
Eccessi, droga, alcol, follia, contestazione e rabbia sociale: due icone dell’America ribelle, dei giorni di Woodstock, della generazione che disse no al Vietnam e costrinse Johnson a gettarla spugna; due simboli di un mondo che non esiste più ma continua a vivere dentro di noi, nel ricordo di un’intensità che non può essere descritta a parole.
Jimi Hendrix e Janis Joplin vanno considerati insieme, nelle estati roventi dell’amore e della ribellione, dell’LSD e del fenomeno hippie, emblemi dell’altra America che già allora capiva che si stava correndo ad ampie falcate verso la distruzione del nostro stare insieme.
Se ne sono andati, come detto, a soli ventisette anni: un lungo addio, annunciato, inesorabile, impossibile da contrastare, specie se si pensa agli abusi cui si sottoposero, all’impossibilità di essere pienamente felici, all’irrequietezza della loro musica, alla loro arte che animava le folle e le induceva a riflettere, al loro poter esistere e avere successo solo in quell’ultima stagione in grado di produrre qualche convinto oppositore del capitalismo, prima che anche i figli di Woodstock si perdessero o, peggio ancora, si lasciassero lusingare dal potere e dalla ricchezza.
Di quel triennio, dal ’67 al ’70, è rimasto poco o nulla. Gli studenti di Berkeley, i rivoluzionari di San Francisco, con le corone di fiori al collo e una gran voglia di spaccare il mondo, denunciare ed essere protagonisti di una nuova era, hanno ormai i capelli bianchi. Dello spirito di quei tempi eroici si è persa soprattutto la spensieratezza. Per questo, anche se può sembrare crudele scriverlo, e in parte lo è, Jimi Hendrix e Janis Joplin hanno fatto bene a morire così presto, prima di assistere al declino di tutto ciò in cui avevano creduto e di finire male: o traditi dal pubblico che un tempo li osannava o a loro volta venduti al sistema.
Erano esagerati, certo, nulla in loro era normale. I loro abusi e i loro toni meritano di essere presi con le molle, anche perché non si può essere d’accordo con certe manifestazioni ai limiti della violenza, come l’assurdo rogo della chitarra cui si lasciò andare Hendrix al festival Pop di Monterrey. Fatto sta che quell’Inno americano suonato, a Woodstock, sulle note delle raffiche di mitragliatrice, a sottolineare l’assurdità della Guerra del Vietnam, era e resta l’ideale di una generazione che, quanto meno, ci ha creduto, ci ha provato ed è stata sconfitta.
Hendrix e la Joplin hanno perso a loro volta ma sono usciti, comunque, vincitori, in quanto il loro sacrificio ha accresciuto la nostalgia, il rimpianto e la riflessione collettiva su un’epoca che non dev’essere mitizzata ma che comunque oggi rimpiangiamo, immersi come siamo in questa stagione caratterizzata dal vuoto e dall’assenza, in cui anche la musica ha smarrito, in alcuni casi, la sua poesia naturale, la sua funzione civile, il suo respiro universale e la sua capacità di suscitare speranze anche quando a prevalere è lo sconforto.
Cinquant’anni e la sensazione che tutto, o quasi, sia andato perduto.
P.S. Dedico quest’articolo alla memoria di Stevie Ray Vaughan, uno dei più grandi chitarristi di tutti i tempi, scomparso trent’anni fa a soli trentacinque anni in un drammatico incidente aereo. Una morte assurda, un vuoto incolmabile.
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