Il Covid-19 nella testimonianza di chi lo ha dovuto affrontare. Il racconto-testimonianza di una Operatrice socio assistenziale

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L’esperienza di un’operatrice socio assistenziale vissuta all’interno di una struttura che accoglie persone anziane isolate a causa dell’emergenza sanitaria per il Covid-19 racconta cosa ha significato dover assistere e curare chi era affetto dal virus per poi ammalarsi a sua volta costringendola a lasciare temporaneamente il proprio lavoro. Una testimonianza di grande sensibilità in grado di rendere bene quanto sia stato tragico assistere alla morte di tanti anziani nelle rsa in cui il personale sanitario e socio assistenziale si è prodigato incessantemente nel cercare di curare e dare sollievo alle sofferenze di chi non ha più potuto vedere i propri cari prima di cessare di vivere. Il racconto di Luana Cosentino è stato scritto su richiesta del professor Elio Cocciardi insegnante di relazione d’aiuto presso la Scuola per le professioni sociali Levinas di Bolzano. Solo chi non è mai entrato in un reparto di terapia intensiva, di rianimazione o in una residenza per anziani non può comprendere quanto sia stato drammatico trovarsi di fronte ad un’emergenza sanitaria di tale portata; come è accaduto in principio quando il personale era sprovvisto di sufficienti dispositivi di protezione individuale, di adeguate terapie farmacologiche capaci di bloccare gli effetti devastanti dell’infezione che ha causato migliaia di decessi. Chi oggi ancora nega la gravità di quanto accaduto dimostra di non accettare le evidenze scientifiche offendendo anche la memoria delle vittime e tutti quelli che hanno perso un loro famigliare. Se il negazionismo è alimentato spesso dalla mistificazione e dal rifiuto di accettare le evidenze scientifiche, l’infodemia ha una sua responsabilità da parte dei media con un eccesso di informazione spesso poco veritiera.

Un’overdose di notizie divulgate anche in modo strumentale senza riscontro reale. Scrivere ad esempio che risultare positivi al SarsCoV2 è indice di malattia è un errore che si ripete quasi tutti i giorni sui giornali. La pandemia si è diffusa in tutto il pianeta trovando gli stati impreparati anche per la mancanza di piani sanitari adeguati a contenere la diffusione come ha spiegato Maria Rita Gismondo direttore della Microbiologia clinica e virologia dell’ospedale Sacco di Milano (dal 2003 si occupa di bioemergenze occupandosi tra l’altro di diagnosticare la Sars) ha pubblicato per il Fatto Quotidiano una sua lunga riflessione dal titolo “L’eredità del Covid: la crisi, il futuro”: «L’OMS ha diramato allerte e invitato più volte i paesi a prepararsi a una nuova pandemia. Ha anche creato una struttura ad hoc per predisporsi ad affrontare proprio una pandemia influenzale. Il Pandemic Influenza Preparedness Framework. Nel testo a esso dedicato si legge che “l’implementazione di misure di risposta può essere rafforzata con attività di preparazione avanzata”. Dal 2012 al 2020 questo progetto ha potuto contare su un budget di circa duecento milioni di dollari. Nel 2018 l’OMS ha pubblicato un documento di linee guida: “Passi essenziali per lo sviluppo e l’aggiornamento di un piano nazionale di preparazione ad una pandemia influenzale. Il mondo deve aspettarsi un’epidemia di influenza killer e, anzi deve essere sempre vigile e preparato in modo tale da poter combattere la pandemia che sicuramente si verificherà”. E in Italia cosa è stato fatto? – si chiede la dottoressa Gismondo – , i governi si sono alternati e sono state nominate commissioni, ma senza mai arrivare a nessun risultato. (…) L’ultimo piano pandemico approvato dalla conferenza stato- regioni è datato 2006, aggiornato nel 2010 (dopo l’influenza suina nel 2009) e mai più. Esiste anche un Centro nazionale per la prevenzione e il controllo delle malattie (con un sottocomitato “Virus influenzali e pandemia” inattivi da anni (l’ultimo aggiornamento risale al 2010)».

Un elenco di istituzioni deputate alla prevenzione dei virus che risultano latitanti da decenni, questa è la desolante realtà e per questo l’autrice dell’articolo dice bene quando scrive: «La pandemia non è stata un fulmine a ciel sereno. Sapevamo tutto, e tutti sapevano. Da anni sapevamo che prima o poi sarebbe arrivata una pandemia. Ma, mentre noi tecnici cercavamo di ottimizzare la risposta ad un evento sconosciuto seppur atteso, l’economia mondiale imponeva tagli alle spese sanitarie. Si è seguita una politica di riduzione dei posti letto, del personale e delle erogazioni pubbliche a favore di quelle private. Le convenzioni con il privato sono state presentate come una panacea per la sanità, in realtà hanno convertito un servizio pubblico in un business».

È quanto accaduto, ad esempio, in Lombardia e gli effetti nefasti di tali scelte si sono visti con conseguenze drammatiche, anche per l’assenza di politiche che hanno di fatto smantellato la medicina sul territorio. «Come si fa a pensare di rispondere ad un evento infettivo grave senza avere a disposizione un numero di stanze di isolamento e posti letto in rianimazione superiore alla richiesta routinaria? – domanda che Maria Rita Gismondo pone a chi ha responsabilità nelle politiche sanitarie – Se non si implementa un sistema del genere si verifica ciò che è accaduto nei mesi di marzo e aprile: le terapie intensive intasate solo da malati Covid-19». Per la Nave di Teseo ha pubblicato “Ombre allo specchio: bioterrorismo, infodemia e il futuro dopo la crisi”.

Nel frattempo la Provincia di Bolzano, con due delibere firmate il 2 settembre scorso ha deciso di erogare 10 milioni di euro in premi che verranno assegnati agli operatori sanitari e del sociale impegnati in prima linea nell’affrontare l’emergenza sanitaria.

La testimonianza di Luana Cosentino operatrice socio assistenziale di Bolzano

Dal mese di gennaio ascoltavo le notizie relative al Coronavirus Sars-Co-V2, i decessi che si susseguivano in Cina e il numero di contagi. Il 29 gennaio in Italia venivano riscontrati i primi due casi di due turisti cinesi contagiati; il 6 febbraio un nuovo caso segnalato a Roma di un nostro connazionale rimpatriato da Wuhan.
Dal 21 febbraio in poi la situazione si era aggravata, erano stati individuati i primi casi di persone contagiate dal virus nel nostro territorio. Nessuno di loro era stato in Cina. Il primo caso positivo è stato un uomo di 38 anni di Codogno, in Lombardia. Poche ore dopo ad altre due persone veniva riscontrata l’infezione nel padovano, a Vo’ Euganeo. A fine febbraio si segnalavano i primi decessi.
Le notizie sulle televisioni, sulle prime pagine dei quotidiani, parlavano di quali sintomi provocasse l’infezione che nei casi gravi creava delle crisi respiratorie. Si iniziava a parlare di misure di sicurezza, di come contenere il contagio, come dovevano comportarsi i cittadini, il lavaggio accurato delle mani, l’uso di disinfettanti. Tutti ne parlavano e cosa pensava la gente?: “Troppo allarmismo”, “al solito i telegiornali esagerano”, “vogliono metterci paura”, “ma cosa vuoi che accada… figurati se arriva qui!”, “sarà come un’influenza”. Il 04 marzo viene firmato il primo decreto con il quale il governo decide la chiusura in via cautelativa delle scuole e università in tutta Italia . Nelle residenze per anziani non era più consentito l’accesso da parte di persone esterne per proteggere i residenti. Gli anziani rappresentano la fascia più a rischio.

Il 6 marzo insieme ad un’amica e collega ci rechiamo in un ufficio postale dove per la prima volta ho percepito una strana sensazione. Mentre attendevo che la mia amica terminasse allo sportello, controllavo le notizie sul cellulare, ed in quel momento lessi del divieto di entrare a persone esterne nelle case di riposo. Avevo avuto due giorni liberi dal lavoro ma mi sono detta da sola: “Ma no, da noi non sarà così, forse non in tutte le strutture è così. Domani sarò in turno e vedremo”.
Una volta terminato ci siamo salutate ed io sono andata a prendere il bus per rientrare a casa. Continuavo ad avvertire quella strana sensazione addosso, che strana aria avvertivo intorno a me per la prima volta. Presi il bus, mi sedetti, guardavo le persone presenti, e ad un tratto mi accorsi di non vedere l’ora di
scendere, avevo fastidio anche a star seduta. Rientrata a casa mi sentii sollevata.
Fu esattamente quel giorno che compresi che le cose stavano davvero cambiando drasticamente, che qualcosa di molto importante e più grande di noi, avrebbe davvero cambiato le nostre vite.

Il giorno successivo mi recai a lavoro, c’erano avvisi affissi ovunque, riportanti il decreto che vietava a persone esterne di entrare e le norme igieniche da rispettare. Inizialmente si pensava a qualcosa di passaggio, sarebbe stata una cautela da prendere per un paio di settimane, poi si sarebbe ripresa la normale routine.
In quel periodo ero impegnata nel secondo tirocinio, richiesto dalla scuola che frequento, lo stavo svolgendo presso una Comunità protetta a Bolzano; mia prima esperienza in quell’ambito, un mondo completamente nuovo per me, e dopo i primi giorni di ambientamento, mi ero sentita molto coinvolta. Avevo instaurato un buon rapporto con gli ospiti, con alcuni in modo particolare, avevo i miei progetti, delle aspettative, le mie curiosità e tanto da imparare.
Ma tutto ciò è stato bruscamente interrotto per via del coronavirus, con la chiusura delle scuole, anche i tirocini non potevano aver seguito. Inizialmente ci fu comunicato che l’interruzione sarebbe stata per due o tre settimane, poi avremmo proseguito. Ero arrabbiata, sembrava tutto così esagerato… che senso aveva?
Da un giorno all’altro tutte le mie abitudini e le mie attività venivano stravolte. Il venerdì non potevo più recarmi a scuola, il progetto di tirocinio bloccato, al lavoro erano state disposte nuove precauzioni, nuovi avvisi e informazioni ogni giorno che passava, e la vita intanto cambiava….Ma continuavamo a dirci: “Sarà per qualche settimana, poi torneremo alla normalità”.

Nulla in realtà è tornato com’era.

Le scuole non sono state mai riaperte, e dopo qualche settimana sono state attivate le lezioni online, i tirocini mai più ripresi, la struttura in cui lavoro, come tutte le altre, sono rimaste chiuse, consentito l’accesso solo ai dipendenti. Le varie norme diventate sempre più restrittive, l’uso delle mascherine obbligatorio, l’attenzione alla distanza di sicurezza dai colleghi durante le consegne, l’uso dei disinfettanti per sanificare tutte le superfici.
Con il trascorrere dei giorni i residenti non poterono più uscire dalla propria stanza, per precauzione e per tenerli al sicuro, non si poteva sostare nelle sale comuni, qualunque attività era stata interrotta, i pasti serviti nelle camere.
Nel frattempo la vita di tutti è stata sconvolta. Considerando l’evolversi della situazione epidemiologica, il carattere diffuso dell’epidemia e l’incremento dei casi sul territorio nazionale, nel mese di marzo viene firmato un nuovo decreto con il quale venivano adottate nuove misure per contenere e gestire l’emergenza epidemiologica da Covid-19 sull’intero territorio nazionale. Sospese le attività commerciali, i servizi di ristorazione, le attività inerenti i servizi alla persona, ridotti e soppressi i servizi automobilistici e il trasporto pubblico.
Non si poteva più uscire da casa se non per lavoro o necessità precise, bisognava certificare per iscritto il motivo di ogni spostamento, si doveva evitare qualunque assembramento di persone. Mi ritrovai a vivere la mia vita esclusivamente tra casa e lavoro.

In servizio era spiazzante dover vivere un clima totalmente sconosciuto, la continua attenzione ad ogni eventuale cambiamento di salute dei residenti, i dubbi, le tante domande, e nel momento in cui si sono verificati dei peggioramenti di due ospiti, la situazione è diventata sempre più tesa. Non c’era più chiarezza, avevamo l’impressione che non ci fosse raccontata la verità sul reale pericolo che correvamo. I responsabili continuavano a dirci di stare tranquilli, che non avevamo nulla di cui preoccuparci e che la situazione era sotto controllo. La loro prima preoccupazione era quella che non si creassero allarmismi che potessero spaventarci e portarci a non recarci a lavoro. Si percepiva l’incremento del tasso di malattia tra il personale delle case di riposo in quel periodo.
L’aria diventava sempre più pesante, si percepiva l’incertezza tra il personale, la paura di non essere tutelati e la sensazione che non c’era la capacità di gestire la situazione sanitaria.
Si entrava in alcune stanze con il timore con l’incertezza e non ci si fidava quasi più di niente.

Ricordo perfettamente una mattina in turno quando avvertii che quella situazione iniziava a pesarmi parecchio, ebbi la sensazione di non riuscire a respirare lì dentro, avevo bisogno di uscire. Rientrata a casa sentivo la voglia di piangere, mi sentivo come intrappolata in quella condizione, nella testa tante domande senza risposta e i timori. L’unica cosa che feci fu chiamare mia sorella a Roma, parlare con lei, ascoltare la sua voce e cercare di tranquillizzarmi. Sentii forte la voglia di andare via… avrei voluto essere con la mia famiglia, avrei voluto quell’abbraccio che qui non potevo più dare né ricevere da nessuno.
Ma come sempre mi feci forza, qui a Bolzano è la mia vita e qui ho il mio lavoro. Giorno dopo giorno avrei affrontato tutto.

Con il trascorrere dei giorni sembrò crearsi un nuovo equilibrio, con alcune colleghe ci incoraggiavamo a vicenda e insieme cercavamo ogni strategia per superare le difficoltà.
Ormai era una nuova realtà, e dovevamo pensare ai nostri residenti, a come avrebbero vissuto quei cambiamenti, quale impatto avrebbe avuto. Inizialmente era più semplice cercare di rassicurarli dicendo loro: “Si tratta di un virus a cui dobbiamo fare molta attenzione, per ora non possono entrare parenti e amici, così ci proteggiamo per qualche tempo… finché non sparirà”. Ma i giorni diventarono settimane e lo sconforto si leggeva nei loro occhi. Alcuni di loro diventavano sempre più nervosi, irascibili, quasi intrattabili, quelli non autonomi e che non parlavano. Sembravano sempre più tristi e spesso mi ritrovavo a chiedermi: “Chissà cosa pensano…” Non esiste demenza che non faccia avvertire la mancanza degli affetti.

E pensavo a quanto potesse essere doloroso non vedere più quei volti amati e non ascoltare le loro voci. Non vivevano più la quotidianità alla quale erano abituati da sempre, non potevano incontrarsi tra di loro nella sala, non potevano uscire e passeggiare in giardino. Non ci vedevano più preparare i pasti nella nostra cucina, perché nella struttura in cui lavoro abbiamo la cucina sui piani, a vista nella sala comune dove siamo abituati a cucinare noi operatori, con i residenti che ci guardano tra chiacchiere e battute.
I pasti venivano preparati dalla cucina centrale .Era difficile intrattenere gli ospiti, cercare sempre di sorridere nonostante tutto, cercare di non fargli pesare troppo quella situazione. Alcuni di loro si lasciavano andare.

Il Covid-19 non permette nemmeno un ultimo saluto 

In quel periodo sono deceduti due residenti, e come tutti in quel periodo, anche se non era stato effettuato il tampone per verificarne la presenza, o se era stato effettuato con esito negativo, furono gestiti comunque come persone infette da coronavirus. Lessi il protocollo al riguardo, di come trattare tali casi e avvertii un gelo. Le salme non dovevano essere lavate né cambiate, quindi lasciate come si trovavano nel momento della morte; doveva essere posta una mascherina per coprire naso e bocca. Il corpo doveva poi essere inserito in un sacco di plastica ed essere portato via per la cremazione. Quindi si passava all’eliminazione dei loro indumenti e qualunque oggetto e alla disinfezione profonda delle camere con prodotti specifici.
Furono solo le prime due che vidi morire in questa maniera. Senza la vicinanza di un proprio caro, senza che questo potesse più rassicurarlo e stargli accanto, né salutarlo dopo la morte.
Solo una telefonata che ne annunciava la scomparsa.

Il numero dei decessi in tutto il paese continuava a crescere, ospedali ormai trasformati solo per l’accoglienza delle numerose persone contagiate, reparti diventati sale di rianimazione e nuovi ospedali venivano aperti nel giro di pochi giorni per far fronte all’emergenza.
La situazione presso la struttura in cui lavoro era rimasta alquanto tranquilla, nessun caso a parte una residente che era risultata positiva al test dopo essere stata ricoverata in ospedale per altre problematiche, e che non fece più rientro morendo poi nel mese di aprile. Continuavo a leggere le notizie che parlavano di continue emergenze, la carenza del personale negli ospedali e in alcune Rsa, e di quello in servizio costretto a turni estenuanti.
Sentivo la necessità di aiutare in un momento come quello, di sentirmi utile e di intervenire nel mio piccolo, perché questo è la mia professione, e questa la forte spinta che avvertivo dentro di me. Da giorni sentivamo parlare delle difficoltà che stava incontrando l’altra struttura sempre facente parte della Fondazione per cui lavoro, e dove avevo già lavorato. Iniziai a pensare che lì avrei potuto aiutare i colleghi, da noi il personale era al completo e nessuna emergenza presente. Mentre dall’altra parte da una persona scoperta positiva al virus, per caso in seguito ad una caduta, erano iniziati i decessi tra i residenti, il personale contagiato e in quarantena a casa, e non riuscivano ad affrontare una situazione del genere.
Proprio in quei giorni la direzione ci comunicò delle grandi difficoltà che lì stavano affrontando e che era necessario aiuto, chiesero se qualcuno di noi fosse stato disposto a prestarvi servizio. Risposi subito e mi resi disponibile, di lì, nel giro di un paio di ore fui contattata dalla direttrice che mi chiese di iniziare già il giorno dopo, e così fu.
Arrivai davanti la residenza, un responsabile mi accolse iniziando a ringraziarmi e mi raccontava quello che stava accadendo e delle enormi difficoltà. Mi accompagnò per mostrarmi dove dover ritirare ogni giorno i dispositivi di protezione individuale, terminate alcune spiegazioni andai a cambiarmi e salii in reparto. L’accoglienza fu molto calorosa e tra mille ringraziamenti, il coordinatore mi spiegò le varie regole da seguire, come vestire la tuta e il resto dei DPI per stare in sicurezza, e tutto il resto. Si premurò di farmi mille raccomandazioni, dell’attenzione che dovevo porre per ogni minima azione, la disinfezione di ogni oggetto, mi ripeteva: “Tratta tutti come se fossero positivi al virus”. Mi sentivo piena di energia e di voglia di tuffarmi nella nuova esperienza, ma al tempo stesso ero agitata; decisamente il clima era completamente diverso rispetto alle altre volte che vi avevo prestato servizio.
Era tutto desolato, i residenti nelle camere, facevo fatica a riconoscere i colleghi, immersi in quelle tute, con cappuccio, occhiali, visiere e mascherine.
L’infermiera mi diede subito il compito di rilevare la temperatura corporea e la saturazione a tutti i residenti dei due piani, prassi da seguire ogni giorno mattina e pomeriggio. Iniziai il mio giro e pian piano incontrai i volti già conosciuti ed i nuovi, mentre scoprivo di qualcuno che già non c’era più, portato via da quel nemico invisibile…. contro cui da quel giorno avrei combattuto da molto vicino.

La paura non ferma l’assistenza ai malati

Quel giorno entrando nelle camere, vedendo le condizioni precarie di alcuni ospiti, sapendo che lì dentro c’era il Covid -19 ormai ospite fisso, riconobbi dentro di me tante emozioni, tra cui la paura. I turni erano stancanti, ci fermavamo poco; gli ospiti da controllare nelle camere, i pasti da servire e le persone da imboccare, l’aiuto da prestare agli infermieri, la disinfezione dei locali. Avanti e indietro lungo i corridoi.

I momenti più belli e intensi erano quelli trascorsi con i residenti, in particolar modo durante l’assistenza; mi resi conto con il trascorrere dei giorni, che quando ero con loro, il “problema virus” passava in secondo piano. Che si trattasse di persone per le quali già ci fosse il sospetto di positività, oppure no (rischio comunque sempre presente), mentre ero accanto a loro, vedevo solo loro. Quello che importava era vederli sorridere, sapere che in quel frangente avrei potuto trasmettergli serenità e benessere; il contatto era per forza di cose ravvicinato, eppure in quei momenti non avevo alcuna paura….in quei momenti a contare era la relazione tra me e la persona di cui mi prendevo cura. Durante il mese precedente avevo vissuto il fatto di iniziare ad usare la mascherina, le prime volte che entravo nelle camere degli ospiti con parte del viso coperta, provavo disagio, ma non per me, bensì per loro, e mi riferisco soprattutto alle persone che non possono comunicare con le parole, che hanno una demenza o altri problemi cognitivi. Mi chiedevo che effetto facesse loro, se avessero timore; mi accorgevo di come mi guardavano. Ricordo in particolar modo una residente affetta da Alzheimer, che continuava a fissarmi e mentre le prestavo assistenza cercava sempre con la sua mano di arrivare alla mia mascherina, chissà… forse avrebbe voluto togliermela.

E adesso ero ancora più coperta, c’era la cuffia che copriva i capelli e il cappuccio della tuta, e gli occhiali o la visiera. Quante barriere.
Entrando nelle stanze mi premuravo di dire il mio nome, di far ascoltare la mia voce e di guardarli bene negli occhi per mostrargli che i miei sorridevano, sempre.
In particolar modo ho impresse due residenti, le conoscevo da più di due anni, ed entrambe malgrado i loro problemi, continuavano a ricordarsi di me. Entrando nella stanza con una delle due giocavamo un po’, una ha l’Alzheimer e non vede bene, eppure anche malgrado l’età avanzata, è una persona che cerca di fare tutto ciò che riesce da sola. Le piaceva riconoscermi dalla mia voce e ricordo bene come ci guardavamo negli occhi ed il modo in cui mi sorrideva. Ricordo un giorno in cui entrai da lei, non avevo indossato il cappuccio della tuta e le stavo parlando, quando mi fermò e mi disse: “Luana, oggi hai fatto la treccia ai capelli”.
Ed ecco quanto sono attenti loro nei nostri confronti, quanto ci possono osservare, quanto significa quell’unica presenza che a volte rappresentiamo, quanto sono unici quei momenti che si creano.
L’altra residente, una signora con grande cultura ed intelligenza, con patologie che erano molto peggiorate, era sempre a letto e molto spesso agitata. Entravo nella sua stanza per cercare di tranquillizzarla, lei ripeteva il mio nome, mi chiedeva quanto sarei rimasta lì con loro, e mi parlava. Ricordava che la mia città natale è Roma e che lì ho la mia famiglia, e un giorno mi disse: “Devi andare a Roma, sai che bello riabbracciare la tua famiglia… e devi salutarmi mamma e papà”.

Le dissi che lo avrei certamente fatto e che al ritorno le avrei raccontato tutto.
Per molti di loro era particolarmente difficile riuscire a rimanere nella camera, quelli più irrequieti spesso dovevamo riportarli in stanza varie volte, e cercavamo di fargli comprendere che era per il proprio bene, che dovevamo solo attendere che questo virus passasse. Ma in alcuni casi era troppo difficile; la signora sempre pronta con le valigie perché voleva tornare a casa, non sentiva ragioni, e tutto il giorno preparava i suoi bagagli, li metteva fuori dalla porta poi li riponeva dentro. E un’altra che urlava aiuto perché la tenevamo ferma lì e lei voleva uscire, costretti a chiudere le porte dei corridoi per fermarla.
Una residente in carrozzina, abituata a passeggiare tutto il giorno tra sala e corridoi, continuava a sbattere con la sedia a rotelle sulla porta della camera, e quando non riusciva ad uscire, costretta in camera, creava un disordine pazzesco, tirando fuori ogni oggetto e indumento dai cassetti dei mobili.
Ma cosa potevamo fare? Quante volte con tanta pazienza tornavo a parlarci e a farli stare tranquilli, quante volte a ripetere che non si poteva uscire. Ma non si trattava più di qualche giorno o di una settimana, era più di un mese. E nei giorni più difficili e pesanti era a volte difficile mantenere la calma, quando per tutto il giorno si cercava di placare una situazione che sembrava non avere mai fine.
Molti dei residenti invece avevano perduto ogni voglia di fare qualunque cosa. Rimanevano sul letto o su una sedia, anche farli alzare per accompagnarli in bagno, per lavarsi e vestirsi, era faticoso. Una residente a cui ero affezionata, una ex infermiera, una bella signora molto simpatica che spesso cantava e ballava, era lì sempre sul letto, svogliata, perdeva l’appetito e per la maggior parte del tempo dormiva. Cercavo ogni giorno di stimolarla, ma a stento faceva due chiacchiere. Un giorno arrivò una telefonata da parte della figlia, le portai il telefono e dopo giorni finalmente la vidi alzarsi, sveglia e seduta sul letto, mentre la sua voce si inteneriva durante la conversazione e le lacrime iniziarono a cadere sul suo viso commossa. Sentii il mio cuore stringersi.
Non capivamo più chi si stesse deprimendo per via della situazione e chi invece in realtà mostrava i primi sintomi del contagio.
Ogni settimana venivano effettuati i test a residenti ed operatori, il giorno dopo veniva comunicato l’esito; tanti colleghi iniziavano la quarantena a casa, e gli ospiti risultati positivi, venivano trasferiti nel nucleo covid.

Assistere a quella scena era ogni volta un colpo. Persone che neanche avremmo immaginato, risultavano positive; alcuni operatori si occupavano del trasferimento, veniva messa loro la mascherina sul viso e un lenzuolo a coprirli interamente, un operatore dietro di loro che spruzzava disinfettante a terra man mano che il letto procedeva, e poi la stessa procedura per la camera.
Un giorno ho dovuto preparare per il trasferimento una residente, che in realtà non aveva mostrato sintomi e restammo tutti sorpresi. Con un collega dovevamo trasferirla dalla carrozzina al letto e dovevamo cambiarla; lei non voleva, stava sfogliando le sue solite riviste, e non comprendeva il motivo di essere messa a letto a quell’ora; cercavo di tranquillizzarla, ma lei protestava e continuava a lamentarsi. Malgrado ciò la preparammo e fu portata via.
Una residente non stava bene da alcuni giorni, aveva problemi respiratori, si era reso necessario il supporto dell’ossigeno, e continuava ad avere qualche linea di febbre. Eravamo quasi certi che avesse contratto il virus. Una mattina il coordinatore mi comunicò che lei avrebbe ricevuto una videochiamata da parte dei figli, e che ad una certa ora quindi era bene fosse pronta.
Me ne occupai personalmente, con l’aiuto di una collega mi preoccupai della sua igiene, di cambiare la sua biancheria e di posizionarla in modo tale che fosse comoda per ricevere la telefonata. La signora era abbastanza pesante, inoltre non aiutava negli spostamenti, aveva paura quando si sentiva toccata. Io la conoscevo, aveva una demenza, era un tipo simpatico e amava cantare le vecchie canzoni italiane. Allora, ad ogni spostamento le anticipavo cosa avremmo fatto per rassicurarla, le dicevo che la stavo facendo bella, che avrebbe indossato una camicia da notte nuova e che dopo un po’ avrebbe parlato con i figli. E intonavamo nel frattempo il motivetto di una canzone che tante volte aveva cantato.
E finalmente era rilassata, sorrideva e diceva qualche parola.
Ed è esattamente questo che non mi faceva avvertire il peso di quella situazione. Condividere con loro questi momenti, sapere di averli sollevati o rassicurati per un po’… questo restava. Anche lei risultò contagiata dal virus, e il pomeriggio stesso fu trasferita.
Rimanevo lì a sperare forte che sarebbero tornati in reparto, un reparto che nel giro di dieci giorni si era più che dimezzato.

Nel frattempo vidi morire altre due residenti, che pur risultando negative al test, ci lasciarono; stessa prassi dopo la morte. Con una di loro sono rimasta sino agli ultimi istanti, per poi vederla portare via coperta dal sacco di plastica.
E con i giorni giungevano le notizie, non ce l’aveva fatta la signora che aveva cantato un’ultima volta con noi quella mattina, così come la residente alla quale avrei dovuto raccontare del mio viaggio a Roma, e come la signora che a malincuore fui costretta a preparare per essere trasferita. E mi è rimasta dentro quell’immagine di lei che non voleva…. e di quella camicia da notte rosa.
Vedere al pian terreno davanti la cappella le loro fotografie con l’annuncio della scomparsa, era ogni volta un dolore, e all’ennesimo annuncio, un giorno sentii di voler crollare. Avevo la sensazione di non riuscire a respirare, volevo piangere. Andai sulla terrazza per abbassare la mascherina e provare a prendere aria; fuori un sole bellissimo, era primavera. Ma dentro l’aria era sempre la stessa, avevo la sensazione che malgrado i nostri sforzi ogni giorno, nonostante quel correre e tutta l’attenzione e le premure, non avremmo mai fermato quel nemico invisibile. Mi sentivo impotente. Continuai a lavorare, per la maggior parte del tempo trovavo qualcosa da fare e da sistemare anche nei momenti in cui avrei potuto fermarmi un po’, più mi muovevo più non avrei dato modo ai pensieri di sopraffarmi.
Con i colleghi, i coordinatori, i responsabili, si era creato un clima molto familiare, in difficoltà come quelle, non esistono più tante distinzioni tra ruoli, si percepiva forte che solo insieme si sarebbe potuto affrontare e superare. La situazione che già in generale risultava surreale per tutti, lì dentro era viva e tangibile. Con i colleghi ci scambiavamo pensieri o preoccupazioni, la prima volta che abbiamo assistito al trasferimento degli ospiti contagiati, eravamo lungo il corridoio con un collega, rimanemmo in silenzio e dopo mi guardò e mi disse: “Chi l’avrebbe mai detto che avremmo vissuto una cosa del genere. Non ci sono parole”.
Un giorno parlando con il coordinatore mi raccontò di quando nei giorni precedenti aveva aiutato alcuni operatori a trasferire dei residenti dal reparto al nucleo covid. Mi confidò che non poteva dimenticare il viso di alcune persone, che guardavano con gli occhi sbarrati senza poter comprendere cosa stesse accadendo. E questo faceva un gran male, sapere che erano indifesi davanti a un maledetto nemico che non voleva arrestarsi.
Vivevo tra casa e lavoro, le restrizioni non ci permettevano di fare altro se non andare al supermercato quando necessario, non c’era modo di svagarsi in altro modo e a volte sembrava di soffocare.
Quel giorno la sera rientrai a casa, risposi ai messaggi di un mio amico che mi chiedeva come io stessi, com’era andata la giornata, e mentre digitavo la risposta, iniziai a piangere.
Il giorno dopo ero libera dopo vari giorni in turno, era l’11 di aprile. Restai in casa a cercare di rilassarmi, ma più la giornata andava avanti, più avvertivo una sorta di stanchezza e il mal di testa che aumentava.

Il virus contagia Luana 

La sera, come ormai spesso facevo in quel periodo, misurai la temperatura ed era un po’ alterata; mi capita a volte se sono più stanca o stressata. Andai a letto, avevo di nuovo la sveglia molto presto la mattina dopo.
Durante la notte la situazione peggiorò, non mi sentivo bene, qualcosa mi bloccava la gola e la voce quasi non usciva, ero indolenzita; misurai la temperatura che risultò decisamente molto alta. Ero terrorizzata.
Il giorno prima in struttura avevano effettuato il secondo tampone, ed era risultato per me negativo entrambe le volte; continuavo a ripetermi: “Ho fatto il test ieri, non può essere il maledetto virus, io voglio continuare a lavorare e arrivare fino in fondo, sarà stanchezza e avrò preso freddo…”.
Passai due giorni e due notti con la febbre alta e dolori articolari forti, nausea e mal di testa; dopodiché la febbre cessò e iniziarono altri sintomi tra cui un fortissimo raffreddore e la perdita del gusto e dell’olfatto. Mi sottoposero ad un altro tampone il cui esito arrivò come una sentenza che mai avrei voluto ascoltare. Mentre la persona all’altro capo del telefono mi spiegava cosa dovevo fare a partire da quel momento, le norme da seguire e tanto altro, sentivo tutto offuscato attorno a me, prendevo appunti per non dimenticare, mi pareva di vivere una realtà che non era la mia. La preoccupazione di quello che sarebbe potuto accadere, la paura, l’ansia… Terminata la telefonata aprii le finestre per respirare.
Da lì è iniziata questa nuova avventura che non è ancora terminata. Un’enorme sfida, contro il virus e con me stessa. Il mio isolamento e dopo i primi i giorni in cui ho dovuto riorganizzare tutte le mie abitudini, ho cercato dentro di me tutte le risorse per affrontare questa prova dalla quale non potevo sottrarmi. Inizialmente avevo voglia e bisogno solo di piangere, in altri momenti avrei voluto spaccare tutto… Dio quanto non lo volevo il virus dentro di me! Non era giusto…
Tra alti e bassi, la vicinanza, anche se solo telefonica, delle persone che mi vogliono bene, e la mia testa dura, ho compreso pian piano in quale modo attraversare questo periodo. Mi sarei creata nuove abitudini, dovevo dedicarmi e prendermi cura di me stessa; inutile combattere contro qualcosa che non si può cambiare, qualcuno mi ha detto: “Ascolta quello che il virus è venuto a suggerirti”.

Mio malgrado ero costretta a fermarmi, non potevo più fare come il mio solito, organizzare i miei impegni, i turni a lavoro, le sveglie al mattino. Dovevo accettare questa nuova realtà tutt’altro che semplice; se a tutto c’è un motivo, anche questa esperienza mi avrebbe portato a qualcosa. Ho scoperto sicuramente fino a quanto riesco ad essere forte, quanta energia riesco a tirar fuori, quanto riesco ad utilizzare ciò che ho nel qui ed ora, senza pensare a ciò che non posso fare o avere. Fermarmi su tutto ciò che non mi era permesso, sarebbe stato molto facile; non potevo vedere nessuno, non potevo uscire neanche per provvedere ai beni di prima necessità, tutto si sarebbe svolto solo all’interno della mia abitazione. Ma c’ero io con la mia testa ed il mio cuore, potevo gioire di ogni più piccolo progresso che mi sembrava di fare, il mal di testa che mi abbandonava o un po’ di appetito che tornava; la forza che al telefono mi trasmetteva la mia famiglia, mia sorella che mi riprendeva quando mi sentiva un po’ giù, i messaggi degli amici più cari. Quando mi è stato possibile ho ripreso a leggere i miei libri, ho fatto ordini online, ho seguito le lezioni di scuola ed ho continuato a studiare, ho cucinato ogni giorno con amore non saltando mai i pasti, malgrado non avvertissi alcun sapore o avessi la nausea, perché non dovevano mancarmi le energie.

Le finestre sempre aperte a far entrare aria e spesso affacciata a guardare la vita che fuori scorreva, e per sentire il sole sul viso che mi mancava tanto.
Ho scoperto nuove letture, la musica mi ha accompagnata spesso, come sempre, ed ho ascoltato i consigli di una mia nuova collega ed amica, che mi hanno aiutata a guardarmi dentro, a concentrarmi su quanto di bello potevo far accadere anche in questa situazione, a controllare l’ansia che purtroppo conosco.
Ho avuto momenti più difficili, ho pianto per poi risollevarmi, ho vissuto con la paura che da un momento all’altro potessi iniziare ad avere problemi respiratori, la notte soprattutto… il cellulare sempre acceso come una piccola luce che mi rassicurava. Mi sono sentita spesso impotente, non c’era una cura da poter fare, dovevo solo aspettare che il mio “ospite” mi abbandonasse….e le settimane passavano. Tra le cose che ad un certo punto più mi sono mancate, è stato rivedere il viso delle mie amiche più care dopo mesi, la vicinanza, il calore…. cosa avrei dato per un abbraccio.
Ho riflettuto su tutto il periodo, su quanto ho visto e vissuto.
L’arrivo del coronavirus ha cambiato la vita di tutti e ha sconvolto ogni equilibrio, si è portato via tante, troppe persone, molte delle quali avrebbero potuto ancora continuare a vivere. È stata un’ingiustizia. Ho ripensato alla difficoltà nel gestire una situazione alla quale nessuno era preparato, anche all’interno delle Rsa. Quanti sbagli si possono esser fatti, e nello specifico, avendo vissuto l’emergenza da vicino, mi sono chiesta a volte come sia stato possibile che il contagio non si sia placato per due mesi….

Quello che mi ha segnata profondamente è stata la morte a cui sono state destinate le persone, immaginare la sofferenza dei parenti tenuti lontani; poteva esserci forse un modo per consentirgli un ultimo saluto?
Perché tutto questo dolore? Cosa ci ha insegnato?

Davvero a godere di ogni attimo che abbiamo a disposizione, delle più piccole cose, a sorridere sempre. A non guardare troppo al futuro ma ad essere concentrati sul presente, perché è questo che abbiamo, pensare a ciò che possiamo fare ora…. cercare sempre di essere la versione migliore di noi stessi.
Personalmente non sono affatto pentita della scelta che ho fatto e di tutto ciò che ho vissuto, sapevo che il rischio che correvo era alto, ci avevo sperato, ma la mia salute non è rimasta indenne. Eppure tornando indietro farei esattamente la medesima cosa. Ho imparato ancora su me stessa e, per quanto già lo sapessi bene, quanto io ami svolgere il mio lavoro in cui credo davvero. Per quanto dolore posso aver provato per la scomparsa di tante persone, saprò di essere stata con loro, e terrò dentro di me le loro parole ed i loro sorrisi. Non vedo l’ora di andare a Roma, di abbracciare forte i miei cari… e porterò alla mia mamma i saluti della mia signora E.


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