Fenomenologia del landò. Villeggianti goldoniani nei boschi di Jane Austen

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Nel 1814, contea di Northampton, la vita della piccola aristocrazia di campagna si modula sul tempo chiuso e meccanico della pantomima sociale; un minuetto asfissiante di cerimonie e regole ineludibili, di minuzie, precetti e discriminazioni universalmente accettate. In questo mondo minuscolo e impietoso si può discutere per ore sulla disposizione più adeguata di un gruppo di persone su un landò (da non confondere con la più formale carrozza), in base alle aspirazioni matrimoniali e al ruolo ricoperto all’interno della famiglia.

Decoro e denaro sono le due preoccupazioni centripete di questa classe sociale, i due fulcri dell’esistenza, lo zenit e il nadir di ogni pensiero articolato, gli assi intorno ai quali ruotano le giornate dei Bertram e dei Norris, dei Grant e dei Rushworth. Prebende, rendite, assegnazioni di canoniche, tenute, investimenti nelle colonie, sono ossessivamente presenti nelle conversazioni e oggetto di continue e accurate dissezioni.

Ma è soprattutto il matrimonio (il più vantaggioso possibile) a intossicare le menti di tutti i personaggi di Mansfield Park di Jane Austen (è consigliabile l’edizione Newton Compton per l’introduzione appassionante di Ornella De Zordo). Il trasporto di una fanciulla per il fidanzato potrà aumentare notevolmente quando la stessa avrà avuto modo di valutare l’estensione della proprietà e l’opulenza, tutta marmi e damaschi, dell’abitazione di cui diventerà padrona. La sentenziosa vanità dei giovani gentiluomini cercherà invece uno specchio in cui riflettersi, una figura gregaria, non particolarmente appariscente né brillante e ancor meno competitiva, che si limiti ad accogliere e amplificare con grati, luminosi sorrisi le rare qualità morali e intellettive degli aspiranti mariti e, in seguito, a dar lustro al loro nome grazie a un’accidiosa, ornamentale presenza sui sofà di casa. Ignorano o fingono di ignorare, questi signori, il lungo apprendistato di cui gli ammalianti, candidi sorrisi da cui vengono incantati sono il frutto più appariscente. Rimuovono dalla coscienza la disciplina con cui sorelle, cugine, amiche, fin dall’infanzia hanno accettato le manipolazioni familiari e con cui applicano regole, ipocrisie e tautologie di uso comune.

La norma principale è non riflettere eccessivamente, edulcorare le proprie idee, farsi illuminare dal pensiero maschile o almeno fare in modo che gli uomini lo credano.

L’autonomia femminile, anche per quanto concerne il movimento, è circoscritta entro confini strettissimi e la loro violazione comporta un immediato ostracismo. L’esplorazione di un boschetto diventa epopea, avventura memorabile consentita alle signorine solo se adeguatamente accompagnate. Durante una di queste ardimentose escursioni l’autrice trova il modo di rendere omaggio a Shakespeare trasformando, fra equivoci sentimentali e attrazioni proibite, il bosco di Sotherton nella labirintica foresta di Arden.

Mai come in questo romanzo la Austen assume toni aciduli e pessimisti. Non salva nessuno, non ama nessuno (neppure gli atteggiati rappresentanti dell’emergente borghesia londinese). La stessa struttura narrativa si frantuma per la pressione di una mal trattenuta indignazione. L’omogenea, lieve compostezza del raziocinio, dell’ironia antiromantica, si sfalda lasciando spazio alle forme aspre, beffarde, policentriche del settecento inglese (Smollett, Fielding). La storia ci viene raccontata attraverso lunghi dialoghi fra i personaggi, interventi solo apparentemente impassibili (in realtà luciferini e amari) dell’autrice e descrizioni “dall’interno”, ma in terza persona, affidate a Fanny, nipote povera adottata dai Bertram.

Ascoltando (è infatti un romanzo che va ascoltato più che letto) i discorsi dei londinesi Crawford, caratterizzati da un’ingenuità capricciosa da parvenu, ritroviamo la borghesia già “piccola” e istericamente infatuata dei simboli effimeri del benessere descritta da Goldoni nella Trilogia della Villeggiatura. Pseudobenestanti e parassiti d’ogni risma impegnati in vorticosi preparativi per l’agognata, irrinunciabile vacanza “in villa” a Montenero (Vittoria paventa di dover rimanere a far la guardia alle mura di Livorno). Si parte in carrozza (i Signori), indossando mantelline col cappuccetto all’ultima moda di Parigi per ripararsi dalla polvere, o in barca (i domestici) lacrimando per l’imminente mal di mare.

La villeggiatura verrà dissipata in sofferenze amorose, futilità varie e nottate trascorse giocando a carte (ci si alza di malumore, con gli occhi gonfi e un amaro in bocca che nessun cioccolatte può attenuare), mentre la minaccia dei debiti e della conseguente bancarotta si insinua serpentina nello sfrigolìo meridiano delle cicale, stringendo il cuore e impedendo l’allontanamento dalle angustie e angosce di ogni giorno.

Il lettore/spettatore troverà l’altrove connaturato alla vacanza solo nella Signora Sabina. In questo personaggio struggente, prossimo al tramonto, si riaccende per un istante l’incandescente, pura speranza giovanile di un amore assoluto e chi ascolta, chi guarda ne è travolto (impossibile dimenticare l’interpretazione di Anita Laurenzi nella versione capolavoro di Castri del 1997).


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