Con una lentezza metodica, con i sensi vigili e la pelle pronta a captare ogni variabile particella di luce o umidità, ci muoviamo nel quartiere ai margini di San Francisco dove si svolge quasi per intero La storia di un matrimonio di Greer (ed. Adelphi). Dalla spiaggia, le spalle al Pacifico, vediamo la nebbia srotolarsi come un manto sulle casette a schiera con i vetri delle porte color rubino. Ci aggiriamo entro una topografia epifanica: l’insegna del cinema Parkside con la porta a battenti che rivela una giornata luminosa, il luna park delle Outlands con le montagne russe e le esplosioni atomiche di neon, la pista da ballo Rose Bowl, dall’altra parte della baia, con gli alberi che escono dai buchi della pedana e le foglie che velano appena le stelle, l’erba d’oro dei campi piegata dai venti oceanici e ombrata di nuvole. Nell’ordito dei luoghi si innestano – strettamente connesse fra loro – ansietà dissimulate o fragorose, personali e collettive, come l’ossessivo spiarsi a vicenda di derivazione maccartista (siamo nel 1953), i traumi fisici e mentali di una guerra ancora troppo vicina, il conflitto coreano, le prime rivolte razziali, le molte violenze discriminatorie di una democrazia imperfetta, il conformismo eletto a religione universale, gli episodi di cronaca nera strategicamente amplificati dai giornali.
In questa cornice di tensioni sovrapposte si manifesta l’inquietudine in progress di Pearlie Cook. Il velo enigmatico, l’apparente fragilità del bellissimo marito Holland (che Pearlie preserva dagli orrori del mondo tagliando via dai quotidiani le notizie perturbanti, e da ogni eccesso di rumore acquistando un cane muto – un richiamo all’ipersensibilità del signor Usher?), assumono significati sorprendenti quando sulla scena appare – o meglio, ritorna, in fondo si tratta di un revenant molto simile al marito disperso della protagonista di The Others) Buzz, l’uomo conosciuto da Holland durante il periodo bellico, in un ospedale militare. Amico ritrovato o fantasma inopportuno.
La prosa lenta, avvolgente, controllatissima, ma con aperture improvvise di rara suggestione, di Greer indaga la distanza che separa ciascuno di noi dagli altri, l’inconoscibilità delle persone amate, l’attenzione quasi esclusiva che prestiamo alle superfici. Racconta la nostra incapacità di vivere la solitudine, quella paura rabbiosa di perderci negli spazi vuoti che ci spinge a trattenere irragionevolmente immagini già svanite, a ritenere plausibili le nostre insensate proiezioni e costruzioni. Ci mostra la luce carnale e il senso che le nostre esistenze, il loro trascorrere addolorato o incantato, le consuetudini, instillano negli oggetti: l’orologio da parete rotto, il tavolo-nascondiglio, le forbici, il misero fornello da scapolo di Buzz, l’odore di candeggina delle lenzuola stese nell’azzurro. Ci dice, infine, che il più delle volte il motivo profondo dell’inestricabilità di un legame fra due persone consiste nella reciproca testimonianza nel presente di un’essenza individuale, anche fisica, che si allarga, in cerchi concentrici, fino a comprendere gli innumerevoli morti e i luoghi della giovinezza, appartenente al passato e altrimenti perduta.
Anche un film assai originale uscito nel 2008 – Two lovers di James Gray, impietoso thriller dei sentimenti dai toni lividi e ansiogeni, in cui dominano asincronia e infelicità – ci racconta l’inconoscibilità dell’altro nel rapporto d’amore, e ancora: i moventi spesso vili e ambigui delle nostre azioni, la paura mordace della solitudine che ci sospinge verso simulate ricomposizioni familiari, compromessi e ripieghi.
Resta incisa nella memoria la sequenza in cui Michelle (Gwyneth Paltrow), in controluce – una sagoma buia in movimento -, passando lentamente attraverso un corridoio esterno di mattoni, si avvicina a Leonard (Joaquin Phoenix, chi lo ha conosciuto solo in Joker cerchi piuttosto questo film) che la sta aspettando in cortile. Il progressivo rivelarsi degli occhi febbricitanti, in quel momento quasi inferi, della ragazza disegna il punto di coincidenza del personaggio con l’inafferrabilità e transitorietà di ogni oggetto del desiderio. La passione è necessariamente costruzione e finzione, inganno e autoinganno più o meno consapevole. Come Emma Bovary, Leonard verrà abbandonato la sera della fuga.