Oggi è una bellissima giornata per la Libertà d’Informazione. Non si dovrebbe esultare mai per la condanna di qualcuno, ma in casi come questi – quando c’è di mezzo la vita e la dignità delle persone – almeno si può sorridere e far notare che noi siamo sempre stati dalla stessa parte in tutti questi anni: quella di Rino Giacalone.
Cinque anni fa Rino venne diffamato, delegittimato, oltraggiato, con la falsa notizia di una gravissima indagine a suo carico. Questa storia mi ricorda qualcosa, perché gli anni passano ma i metodi rimangono sempre i medesimi.
Oggi il Tribunale di Trapani ha condannato a 18 mesi l’editore di Telesud, Massimo Marino, e il giornalista redattore della notizia, Luigi Todaro. Né può sfuggire il fatto che il giudice ha inflitto una condanna superiore di 4 mesi rispetto a quella chiesta dal pubblico ministero.
Rino, la sua famiglia, non avranno mai Giustizia piena per le sofferenze patite. Ma almeno oggi, dopo cinque anni, può dimostrare al mondo ciò che noi abbiamo sempre saputo ed affermato: è uno dei pochi giornalisti che, in quel territorio, ha difeso la dignità dell’Articolo 21 della Costituzione.
Ed allora è utile riproporre una parte dell’articolo del 10 febbraio 2016 di Libera Informazione.
Trapani è una delle roccaforti del potere mafioso, anche se nelle gerarchie criminali ha occupato sempre la piazza d’onore alle spalle di Palermo. Non solo da decenni è la patria ospitale di Matteo Messina Denaro, l’ultimo boss latitante della fazione corleonese, uscita perdente dalla duplice strategia dell’attacco allo Stato e della contestuale trattativa sotto banco con alcuni esponenti infedeli delle istituzioni.
Trapani è il luogo dove mafia e massoneria sono da sempre due facce della stessa medaglia e ammorbano con la loro presenza asfissiante perfino l’aria che si respira.a
A Trapani fanno più notizia i veleni dei fatti e il mondo del giornalismo, purtroppo, si presta – consapevolmente o inconsapevolmente? – a veicolare accuse e voci che servono a “mascariare”, a macchiare cioè la reputazione di quanti finiscono nell’ormai nota macchina del fango.
Nelle ultime settimane sono tornate prepotentemente alla ribalta alcune accuse infondate ai danni di Rino Giacalone, da sempre tra i compagni di viaggio più preziosi di Libera Informazione, tanto sotto la direzione di Roberto Morrione che sotto quella di Santo Della Volpe.
Ecco perché di fronte ai nuovi rumors provenienti dall’isola siamo andati a rileggerci l’ultimo articolo di Santo Della Volpe, scritto ai primi di giugno dello scorso anno, per solidarizzare proprio con il valente collega.
«Alla vittima Rino Giacalone viene chiesto di discolparsi, mentre erano i giornalisti che lo hanno messo in mezzo che avrebbero dovuto avere la certezza di quel che dicevano o scrivevano prima di fare il suo nome. E, tanto per rincarare la dose, c’è anche chi dice che ora Giacalone dovrebbe querelare per diffamazione, per fare ulteriore luce sulla vicenda»: è questo uno dei passaggi fondamentali di quell’articolo e purtroppo, nel frattempo, la situazione non è cambiata. Altri episodi si sono verificati da quando Della Volpe aveva inteso con il suo scritto smontare l’incredibile macchina del fango che si era messa in moto per delegittimare una delle voci più libere del giornalismo nel trapanese, dove la libertà di stampa è un traguardo da raggiungere ogni giorno e dove l’intimidazione può avvenire soprattutto via social oppure anche via media.
Ecco alcuni dei fatti essenziali.
Alla fine di aprile del 2015, il Giornale di Sicilia pubblica la notizia dell’esistenza di un’indagine a carico di “un noto giornalista trapanese”, di cui non vengono fatti nome e cognome, “conosciuto anche grazie al suo impegno a sostegno della legalità” che sarebbe rimasto coinvolto in una vicenda di favori illeciti di tipo giudiziario/processuale nei riguardi di un imprenditore, anche questo rigorosamente mantenuto nell’anonimato. Accuse pesanti quelle che sono ipotizzate e che vengono protette con il richiamo alla tutela delle proprie fonti. Tuttavia tentata estorsione e millantato credito non sono reati di poco conto e accuse del genere, se dimostrate e vere, minerebbero la reputazione professionale e civile di chiunque, tanto più di un giornalista che fa del suo buon nome l’unica arma di difesa in terra di mafia.
Dopo un paio di giorni, un emittente locale di Trapani, Telesud, rilancia (a firmare l’articolo è lo stesso giornalista che aveva scritto per il Giornale di Sicilia) le accuse del quotidiano facendo i nomi tanto del giornalista, quanto dell’imprenditore (l’ex presidente di Confindustria Trapani Davide Durante), senza aggiungere alcuna prova a sostegno delle accuse e salvo poi richiedere, di fronte alle smentite arrivate in redazione, la produzione di elementi a discarico che dimostrino l’infondatezza degli addebiti.
Un modo alquanto bizzarro e strumentale di procedere: «Invece di approfondire a priori ed avere la certezza della prova e della fonte prima di scrivere un articolo o di andare in onda, si chiede alla persone messa in mezzo a sua insaputa e colpita da quei pesanti schizzi di fango, di discolparsi. È il capovolgimento dell’onere della prova che, in questo caso, chiude un circolo vizioso che colpisce un giornalista nella sua persona e nella sua professione». Un modo bizzarro che nei giorni a venire colpirà anche il corrispondente dell’Agi Marco Bova.
Stizzita la replica di Telesud che ribadisce la propria correttezza nell’aver riportato i fatti, cioè la notizia dell’iscrizione nel registro degli indagati di Giacalone: «Una notizia di iscrizione sul registro degli indagati non potrebbe mai essere “autentica” ma bensì verosimile per autorevolezza della fonte e logicità fattiva. Qualsiasi ipotesi di reato non resa pubblica da una informazione di garanzia piuttosto che da una richiesta di rinvio a giudizio non può che essere “segreta”; e per iperbole, come già scritto, non sarebbe “autentica” neanche se l’avesse riferita un Colonnello dei Carabinieri. Peccato che quella vicenda di interesse giornalistico, in virtù della quale si rivendica la propria professionalità, non esista e si colga l’occasione per rilanciare accuse che sono infondate, facendo riferimento ad un presunto segreto istruttorio violato.
Quel che è chiaro – scriviamo ancora oggi come allora scrisse Lorenzo Frigerio per Liberainformazione – è come sia in gioco a Trapani la possibilità di potere praticare il proprio lavoro di giornalisti, senza finire nel tritacarne dei sospetti. In un contesto così complicato, l’unica possibilità d’uscita è il richiamo alla propria deontologia di operatori della comunicazione, come scriveva qualche mese fa Della Volpe: «E l’onere della prova deve tornare nelle mani del cronista. Questo per rispetto dei cittadini, soprattutto nel momento in cui chiediamo la modifica della legge sulla diffamazione per rispettare il diritto dei cittadini ad essere correttamente informati ed il diritto dei giornalisti ad informare correttamente. Un diritto che in entrambi i casi non può essere usato come una clava per colpire persone indifese. Si chiama deontologia professionale ,per i giornalisti. E va sempre ricordato, anche al nostro Ordine Professionale e agli istituti della nostra professione».
Forse è giunto il momento, non più prorogabile, che l’Ordine dei Giornalisti e le altre istituzioni del mondo dell’informazione si diano appuntamento a Trapani per affrontare questi nodi della professione e per illuminare questa periferia del nostro Paese, dove il fango può diventare notizia.