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Cinquant’anni dopo la penna di Mauro De Mauro manca. E con essa la verità

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“La verità è stata massacrata da un massiccio e mirato depistaggio”. Di Mauro De Mauro, a cinquant’anni dalla scomparsa, rimane il ricordo di un bravissimo giornalista e queste parole della prima sezione penale della Corte di Cassazione, con cui è stata confermata l’assoluzione dell’unico imputato accusato dell’omicidio del giornalista del quotidiano L’Ora di Palermo: Totò Riina.

Fu il giudice a latere del processo di primo grado, Angelo Pellino, a vergare le oltre duemila pagine in cui si diceva che De Mauro fosse stato rapito e ucciso perché “si era spinto troppo oltre nella sua ricerca della verità sulle ultime ore di Enrico Mattei in Sicilia”.

Riavvolgendo il nastro della storia, vediamo come De Mauro avesse ricevuto l’incarico nell’estate del 1970 dal regista Franco Rosi, che voleva realizzare un film sullo storico presidente dell’Eni.

Enrico Mattei era partito dall’aeroporto di Catania, dopo aver trascorso gli ultimi giorni di vita in Sicilia. Poi precipitò con l’aereo su cui viaggiava il 27 ottobre del 1962, nei pressi di Pavia.

De Mauro indagava proprio su quegli ultimi giorni. Seguendo ed approfondendo piste criminali che segnavano i più grandi segreti italiani.

La sera del 16 settembre 1970, alle 21.10, la penna di De Mauro scomparve per sempre. Il cronista aveva appena parcheggiato sotto la sua abitazione, in via delle Magnolie al civico 58 di Palermo. Lo attendevano la figlia Franca ed il fidanzato Salvo, felici per le imminenti nozze. L’attesa divenne sempre più insopportabile, quando la figlia sentì una voce nel buio “Amuninni” (“andiamocene”). Franca guardò con i propri occhi la macchina allontanarsi a grande velocità. Il padre, giornalista, da quel momento sparì nel nulla. A casa non ritornò mai.

Il giornale L’Ora, per cui Mauro scriveva da oltre dieci anni, con un’edizione straordinaria dal titolo “aiutateci” chiese a tutti di collaborare nel ritrovamento.

Da quel momento il silenzio. Le uniche parole furono usate per depistare, come purtroppo spesso accade nel nostro Paese.

Poche e confuse le informazioni dei collaboratori di giustizia. La pista sulla morte di Enrico Mattei, su tutte, ma i carabinieri indagarono anche sul movente della droga e nel 2001, secondo le dichiarazioni del pentito boss di Altofonte, Francesco Di Carlo, venne aperta un’altra pista che conduceva al golpe, tentato nella notte tra il 7 e l’8 dicembre del 1970, da Junio Valerio Borghese.
Il pentito Francesco Mannoia precisò che “non c’era solo l’interesse di cosa nostra palermitana a eliminare Mauro De Mauro, l’interesse si allargava al triumvirato composto da Stefano Bontate, Salvatore Riina e Gaetano Badalamenti. Ma anche cosa nostra americana”.

Il processo per la sua sparizione (e morte) vide l’inizio nel 2006 con un unico imputato, Totò Riina.

Poi le parole dei giudici di primo grado: “la causa scatenante della decisione di procedere senza indugio al sequestro e all’uccisione di Mauro De Mauro fu costituita dal pericolo incombente che egli stesse per divulgare quanto aveva scoperto sulla natura dolosa delle cause dell’incidente aereo di Bascapè”. E poi ancora: “Nella sceneggiatura approntata dovevano essere contenuti gli elementi salienti che riteneva di avere scoperto a conforto dell’ipotesi dell’attentato. Bisognava agire dunque al più presto, prima che quegli elementi venissero portati a conoscenza di Rosi e divenissero di pubblico dominio”.
Ma la parola definitiva di quel processo fu messa nel 2015 quando, a differenza della sentenza di primo grado, la Cassazione confermò le tesi dei giudici d’appello (risalenti al 27 giugno 2014) in cui si sottolineava l’impossibilità, di “distinguere con certezza i fatti come realmente accaduti”. E una delle cause fu, come si legge nella sentenza, il “sistematico depistaggio di soggetti interessati a dissolvere nel nulla ogni elemento utile a ricostruire la vicenda”.

Cinquant’anni dopo la penna di Mauro De Mauro manca. E con essa la verità.


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