Ho lavorato con Zavoli quando l’ex presidente della RAI era tornato a fare il giornalista, con un principesco contratto ad personam che prevedeva un certo numero di ore di trasmissione annue da realizzare per l’azienda, reportage, interviste, programmi da studio, o altre iniziative a sua scelta. Sergio aveva da poco pubblicato Romanza (1987) e stava accarezzando l’idea di trarne un film. Così mi chiese ‘in prestito’ a Fellini inserendomi nella mega redazione che occupava l’intero quarto piano di un palazzo di via Col di Lana (alle spalle della sede RAI di viale Mazzini).
Il principe dei giornalisti aveva ripreso in mano le grandi inchieste: “Viaggio attorno all’uomo – Giovani”; “Viaggio nel sud”; e contemporaneamente collaborava a quotidiani e riviste, soprattutto a Epoca, di cui era diventato opinionista e stendeva a penna pezzi concettosi che poi faceva ribattere al computer e indugiava a levigare fino all’impossibile. Quando con un certo sussiego riferì a Federico del suo nuovo incarico, l’amico invece di dargli soddisfazione aveva bruciato ogni entusiasmo osservando distratto: “Quel rotocalco che si legge nelle anticamere dei dentisti?” “Hai capito come mi ha liquidato?”, commentava Sergio ridendo a denti stretti.
Zavoli lavorava incessantemente, infaticabilmente, con il passo regolare e implacabile del fondista. Stava anche raccogliendo i suoi articoli in una serie di libri che pubblicava da Mondadori e come se non bastasse aveva ottenuto la direzione del Mattino di Napoli acquistato dalla famiglia Caltagirone.
Per me Sergio era il leggendario autore di “Clausura”, la prima incursione di un cronista armato di microfono dietro le grate di un convento inviolabile, precluso alla società civile. Il suo dialogo radiofonico con una suora invisibile, seppellita dentro le mura severe del Carmelo, incantò e turbò profondamente gli ascoltatori per la soavità di accenti della religiosa, dotata di innegabile fascino e intelligenza. Il programma divenne celebre ovunque, vinse il Prix Italia, segnò una tappa non superata nella storia della radio e nell’arte del giornalismo.
Il successo personale venne replicato agli albori dell’era televisiva con “Processo alla Tappa”, un collegamento con il Giro d’Italia che nella conduzione di Zavoli si trasformò ben presto in uno psicodramma collettivo in diretta, protagonisti i campioni dello sport più umile e amato dalla gente comune. Il Paese si bloccava letteralmente davanti ai teleschermi, gli uffici pubblici interrompevano il lavoro, i bar rigurgitavano di spettatori. Gli italiani scoprirono con Zavoli che la conversazione davanti alle telecamere non era soltanto informazione, ma racchiudeva in sé un pathos diverso e mai prima sperimentato: lo “spettacolo del giornalismo”, un genere di alta maestria che ben presto l’avvento delle emittenti commerciali avrebbe trasformato nel “giornalismo spettacolo” dei nostri giorni, preferibilmente corsaro e strepitante.
Fu così che quando Federico Fellini realizzò nel 1963 il suo film più misterioso e sconvolgente, più intimista e disarmato, Zavoli cercò di afferrarne il senso che a molti sfuggiva costruendo un programma specchio: “Un’ora e mezzo con il regista di Otto e Mezzo”. Originale modello di backstage e allo stesso tempo il più bel ritratto che sia stato prodotto su un film e il suo autore.
I due amici erano coetanei e concittadini (benché Sergio fosse di tre anni più giovane e originario di Ravenna) e appartenevano ai ragazzi della diaspora intellettuale, quelli che un giorno hanno preso il treno, come Moraldo dei Vitelloni, e sono partiti per Roma, verso l’ignoto, il sogno, l’ambizione confusa di affermarsi.
Quando Zavoli fu chiamato alla presidenza della RAI, favorì autorevolmente la co-produzione di E la nave va, un’opera visionaria sulla perdita dell’armonia, che anticipava solo di pochi anni la sciagura della guerra nei Balcani. In seguito, quando il giornalista divenne Presidente della Commissione di Vigilanza della RAI e poi anche senatore della Repubblica per quattro legislature, Federico era ormai scomparso, precocemente, a soli 73 anni.
«Ma stiamo continuamente insieme, più di prima; – confessava l’aedo – non ho bisogno di pensarlo perché è già dentro i miei pensieri, un riferimento costante che ha preso il posto di ogni altro affetto, fratello, amico, parente. Ripenso a quello che mi disse dopo Chernobyl, quando le cose per me si stavano inclinando al peggio e correvo davvero il rischio di non farcela, avevo paura di morire: “Ma non sei curioso di scoprire cosa c’è di là?” Mi domandò. Sapeva dischiudere prospettive vertiginose quanto innocenti, donandomi il suo sguardo diverso, unico, inimitabile. Gli raccontai del sogno in cui precipitavo verso un abisso terrificante, uno sgomento plumbeo, irrimediabile, in cui ero consapevole della mia prossima fine. Mi sembrava un pessimo segno. Lui mi invitò al contrario a rallegrarmi perché in quell’angoscioso sentimento di vuoto per ciò che lasciavo era celato, e si stava annunciando, un nuovo inizio. Quelli di Federico erano messaggi di cui ancora non riesco a fare a meno, e la mattina presto, quando la luce inizia a sforare le persiane, aspetto ancora la sua telefonata.»
Sergio Zavoli ha vissuto da dominatore nel paese delle parole. Da quando lo ricordo, sulla sua scrivania, in qualsiasi stanza del potere essa fosse collocata, c’è sempre stato un foglio fitto di scrittura, sul quale correva la penna a limare, smussare, arrotondare le righe. Era carta da musica la sua; e finché dal pentagramma non emergeva quell’unico suono e nessun altro, il testo veniva dolcemente, implacabilmente tormentato. “Romanza” era la sua elegia in prosa, quasi in carta carbone su Amarcord; scritto in auto – sosteneva – quando era presidente della RAI, giorno dopo giorno, nel tragitto tra la sua abitazione dei Castelli Romani e viale Mazzini, sprofondando in una memoria che era anche una fata morgana.
La sua era invariabilmente una prosa d’arte, una scrittura ‘organicamente’ lirica; in ogni passaggio c’era già un annuncio di poesia, dove la parola spezza la gabbia del significato comune per aprirsi a risonanze, allusioni, suggestioni ancora da esplorare. Eppure nei versi lui si schermiva: “Ho dato col silenzio il meglio di me stesso, // una sintassi di parole mute.” La raccolta si intitolava Quando anche l’ombra si fa luce.
In un altro volume, “La parte in ombra”, c’è un duello tenace con la vecchiaia: “Ardere dentro il ghiaccio// solo così si scioglie il nostro inverno.” Ma toccante è l’accenno alla fede, al credente che vorrebbe essere:
“La mia fede non cola lungo i ceri, // e non conosce il viola del martirio. // Ma sarà pure un segno// se sono sulla soglia, //come le foglie contro gli scalini.”
E non manca un richiamo a Fellini, collocato nel limbo degli artisti: “All’improvviso, laconico e solenne// sulla fontana di quindici cannelle//si sventagliò il pavone.”
Quel pavone di Amarcord, l’allegoria della nostra stupefazione davanti all’epifania della natura. Nel 1991 lavoravamo insieme al Festival Cinematografico di Salsomaggiore, direttore Dario Zanelli. Fellini aveva accettato per amicizia di realizzare il logo della manifestazione ed era andato a dipingerlo nell’atelier del suo amico Rinaldo Geleng, “pasticciando con pennelli e colori”: era emersa dalla carta un abbagliante coda di pavone tra le stalattiti di ghiaccio della fontana riminese di Piazza Cavour. Un capo d’opera, che mi aveva consegnato con la consueta sprezzatura: “Vedi se ti piace”.
Zavoli aveva anche tentato di rimettere pace tra Fellini e Berlusconi. Federico fu laconico: “Se vuole vedermi, sa dove trovarmi”.
Alla scomparsa di Federico, era toccato a lui pronunciare l’orazione di commiato all’Arengo, di fronte a un oceano di folla commossa, e ognuno aveva tirato fuori dal taschino il fazzoletto, migliaia di fazzoletti bianchi sventolati al passaggio della bara:
«Era come se tutte le cavolaie, la farfalle dei nostri orti, si fossero date appuntamento per l’addio a Federico.»
Ancora lui aveva esortato in seguito l’amministrazione cittadina, inascoltato, a dare un segno forte dell’onore che Rimini aveva avuto di ospitare la nascita del genio del cinema:
«Il monumento funebre di Federico, la stele a forma di prua di nave di Arnaldo Pomodoro, mettetelo sulla palata del porto; lasciatelo luccicare al sole, tra la gente, circondato di famiglie, di bambini, di turisti che vanno a passeggiare, invece di nasconderlo al cimitero dove non si reca nessuno e in pochi sanno ormai perfino che esista.»
Quando la Fondazione Fellini istituì un simpatico premio per i giovani a Gambettola, Sergio accettò volentieri di lanciarlo presiedendo l’inaugurazione; il teatro traboccava di folla e fu necessario istallare dei mega schermi in piazza.
In quel paese, in cui era nato il padre Urbano, resisteva ancora in piedi, sebbene semi abbandonata, la casa colonica della nonna Franzscheina, dove Federico bambino trascorreva le estati in campagna ad alimentare le sue fantasie.
Potevamo lui ed io non andare d’accordo su Fellini? Eppure accadde.
Nel bel mezzo del mese di agosto Sergio decise di scrivere un articolo sulla temporanea inattività di Fellini. Buttai giù per lui alcune suggestioni, partendo da un’immagine: A Cinecittà le cicale non cantano più. Quell’estate Federico non sarebbe stato a Cinecittà come sempre perché non aveva nessun film a cui dedicarsi. Fellini era solito immergersi con gioia dentro quel coro assordante di cicale che deliravano al sole, e nel suo ufficio, con le finestre spalancate, passare al setaccio la fauna umana più improbabile della Capitale. Anche gli ultimi film, “Intervista”, “La Voce della Luna” erano stati partoriti dalla calura.
Se Fellini non occupa le sue stanze – osservavo nei miei appunti – e le cicale tacciono inebetite, ne deriva un sentimento di disarmo, e in qualche modo di resa e di rassegnazione: il quadro poco incoraggiante di un’Italia malmessa. All’improvviso siamo diventati così ricchi da poter fare a meno della voce dei nostri artisti? E questo silenzio della Musa non si espande carico di inquietudine anche al resto della nazione?
Sergio raccolse le mie osservazioni e compose un lungo intervento dei suoi, che sarebbe andato a riempire un’intera pagina del Messaggero. Quando terminò di scriverlo, me lo diede da leggere. Era un articolo di spessore, da par suo, ma conteneva una querimonia che Federico non avrebbe mai gradito; l’aedo aveva trasformato quel materiale surreale in un accorato appello ai nostri governanti rei di non far lavorare il regista più famoso d’Italia e di lasciarlo intristire nella disoccupazione. Sapevo già quanto questo taglio sarebbe risultato indigesto per Federico, il quale mai avrebbe voluto sentir perorare in quel modo pietistico la sua causa. Trovai leale avvertirlo. Gli sottoposi il testo prima che venisse pubblicato; e Fellini, com’era prevedibile, intervenne senza indugi sul direttore del Messaggero Mario Pendinelli, per bloccare il servizio.
Un affronto che Zavoli prese davvero male, lo considerò un mio tradimento che depositò tra noi una ruggine muta. La quale scomparve, mi parve, soltanto quando Federico passò a miglior vita e ci ritrovammo ad abbracciarci affranti nella ‘camera ardente’ allestita al Teatro 5 di Cinecittà.
Da buon giornalista Sergio aveva già inviato una troupe guidata da Daniele Carminati a raccogliere immagini della camera ardente, e poi del funerale, da montare per un necrologio cinematografico.
Anni dopo, all’inaugurazione a Bologna della mostra su Fellini, La grande Parade di Sam Stourdzé, Zavoli, svolgendo con il suo eloquio forbito un invisibile gomitolo di emozioni, ha raccontato della malattia di Federico, e la sua morte misteriosa al Policlinico Umberto I di Roma, “su cui ancora nessuno ha fatto chiarezza”. Ha rievocato la preveggenza di Fellini, anticipatore di molti scenari della società attuale: “Noi siamo antropologicamente cambiati. Sono cambiate tutte le regole di convivenza civile; e ci sono eventi che accompagnano sempre le grandi mareggiate”. Chiamava in causa persino il mezzo di comunicazione che tanto lustro gli aveva donato: “A volte incolpo la TV di aver avvelenato lo spirito del mondo”. E citava von Braun, da lui intervistato a Cape Canaveral, per collegarsi a Fellini che amava sopra ogni altro il film di Stanley Kubrick “2001 Odissea nello spazio”. Infine aveva rievocato la suggestiva metafora delle cicale che non cantano, l’articolo che a causa mia non era mai uscito sul Messaggero. Non me l’aveva perdonata. E forse non me lo sono perdonato neppure io.