TESTIMONE MARINO – Avvocato, sinceramente io faticava (inc.) e facevo ammazzare li cristiani.
È un passaggio della testimonianza resa davanti alla Corte d’Appello di Bologna da Vincenzo Marino, collaboratore di giustizia un tempo appartenente alla ‘ndrangheta. Marino viene interrogato dall’avv. Colacino; e la discussione si dilunga sul luogo di residenza di uno degli attori del processo. Marino perde la pazienza e in dialetto spiega all’avvocato che «…non lavoravo all’epoca all’ufficio anagrafe…», come dirà poi in italiano, alla presidente della Corte: Vincenzo Marino non era un impiegato dell’anagrafe, era uno che faceva ammazzare i cristiani.
Perché questa introduzione? Per sgombrare il campo – se ce ne fosse bisogno – da possibili “sottovalutazioni”: di uomini e situazioni.
Adesso possiamo fare una brevissima cronistoria, partendo dal 16 gennaio 2018. Tribunale di Reggio Emilia, Aula del Processo Aemilia; Vincenzo Marino è collegato in video-conferenza, convocato non dalla DDA di Bologna che nel procedimento sta sostenendo l’accusa contro quasi 200 imputati ritenuti vicini alla cosca Grande Aracri, ma dalla Corte di Aemilia: Presidente Francesco Caruso, giudici a latere Cristina Beretti e Andrea Rat. Nel corso della deposizione Marino dichiara: «…dovevamo sistemare ‘sto giornalista, se ancora continuava a rompere le scatole…». C’era stata una riunione a Gualtieri, un paese a tre chilometri da casa mia, che all’epoca abitavo tra Brescello e Boretto; non c’era il nome del giornalista “da sistemare” nelle parole del pentito. Ma a me, nel sentire quelle parole, si gelò il sangue. Non erano tanti, nei primi anni del Duemila, i giornalisti che potevano dar fastidio a certi ambienti; sarebbe bastato porre qualche domanda giusta, avendo gli strumenti adeguati, e quel nome sarebbe uscito. Ero convinto che una dichiarazione del genere, davanti alla DDA di Bologna, ai Procuratori Marco Mescolini e Beatrice Ronchi, avrebbe sicuramente portato all’apertura di un’inchiesta; si parlava di un omicidio (anzi: due) di ‘ndrangheta. Perché oltre al giornalista, si doveva ammazzare anche un assessore. Quello che a me interessava era capire chi poteva essere il giornalista; e per questo mi rivolsi all’Ordine dei Giornalisti di Bologna e all’Associazione Stampa Emilia Romagna, esprimendo la preoccupazione per un collega che poteva eventualmente correre ancora un qualche tipo di rischio. Ordine e Aser predisposero un comunicato stampa, che chiedeva al Procuratore capo di Bologna di indagare per dare un nome al giornalista. Ma non successe nulla. Decisi allora di indagare per conto mio; non è stato facile penetrare in determinati argomenti e parlare con certe persone, ma la conoscenza di alcuni soggetti e situazioni, maturata durante la mia esperienza brescellese, mi ha aiutato.
E si vede che il mio “andare in giro a far domande” ha solleticato la curiosità di qualcuno; e considerato che mie fotografie in rete non mancano, questo “qualcuno” ha potuto vedermi in faccia. Un nome può essere dimenticato ma chi faceva ammazzare li cristiani, una faccia non la dimentica; soprattutto se è la faccia di uno di quei cristiani che doveva far ammazzare.
Così arriviamo al 24 luglio 2020, Aula Bachelet della Corte d’Appello di Bologna; collegato da località protetta, Vincenzo Marino. Il Procuratore Generale Nicola Proto chiede dettagli a Marino sulla sua conoscenza con Michele Colacino e, alla risposta affermativa del testimone, il Procuratore chiede quando si sarebbero incontrati. In che periodo:
TESTIMONE, MARINO – Nel 2004.
PROCURATORE GENERALE – Il 2004. Che cosa è successo in quell’occasione?
TESTIMONE, MARINO – Parlavamo di quello che si doveva fare, di quello che non si doveva fare e per quanto riguarda gli affari che c’erano là a Reggio Emilia.
PROCURATORE GENERALE – E quali erano le cose che si dovevano fare e quelle che non si dovevano fare?
TESTIMONE, MARINO – A Reggio Emilia si doveva sistemare un assessore comunale per un piano regolatore e un giornalista che dava fastidio, il dottore Ungaro. E poi parlavamo del resto, dei Muto parlavamo dei Muto, di quello che si faceva con i Muto, che si comportavano bene e in più avevamo chiarito che la nostra alleanza con il (Fuori microfono) Grande Aracri che è mio parente con la cosca Corigliano-Bonaventura era in buoni rapporti
Ecco il nome, anzi il cognome; non affidato a un “sentito dire”, ma scritto sul verbale di un’udienza della Corte d’Appello di Bologna. Personalmente, ho sempre posto tre domande, sul giornalista da sistemare: chi era il giornalista (e adesso la risposta c’è), su cosa stava lavorando e perché non è successo. Alla seconda domanda, una risposta la fornisce parzialmente Vincenzo Marino:
TESTIMONE, MARINO – Avevamo una pratica da sistemare, infatti io gli dissi a Gualtieri che se l’assessore non firmava lo ammazzavamo e lo cambiavamo (Fuori microfono) fastidio si prendevano provvedimenti.
PROCURATORE GENERALE – Gliel’avrei chiesto dopo che cosa significa sistemare una pratica, comunque lei ci ha già anticipato quindi era certamente riferibile ad un affare che stava parecchio a cuore?
TESTIMONE, MARINO – Sì, sì, assolutamente, anche il giornalista, il giornalista che si stava occupando di cose molto serie, Dottore, stava cominciando a toccare i soldi.
PROCURATORE GENERALE – Ecco, senta, allora, visto che siamo in tema, questa pratica che cosa…? O meglio, la pratica per cui l’assessore doveva in qualche maniera intervenire cosa riguardava? Che intervento era? Che cosa doveva sbloccare? Che cosa doveva fare questo assessore?
TESTIMONE, MARINO – Doveva mettere delle firme, Dottò, per concedere degli appalti e dei cantieri, doveva mettere delle firme sui piani regolatori e dare l’ok per aprire dei cantieri.
PROCURATORE GENERALE – Siamo nell’ambito dell’edilizia, giusto?
TESTIMONE, MARINO – Sì, sì.
Non c’è la risposta precisa alla mia seconda domanda, ma c’è la conferma che non si trattava di discussioni “personali”, quelle per cui avrei dovuto essere ammazzato; con il mio lavoro giornalistico avevo toccato l’unica cosa che sta a cuore alla ‘ndrangheta e ai suoi “collaboratori”: i soldi. Peccato che il Procuratore non abbia proseguito per comprendere meglio il tema trattato dal giornalista …dottore Ungaro…, ma abbia cercato di capire qual era la pratica relativa all’assessore. Sicuramente sarà apparso più in argomento l’ambito dell’edilizia; probabilmente, però, anche i temi da me trattati all’epoca non erano così estranei a quell’udienza del 24 luglio 2020. Peccato.
Ma rimane comunque la terza domanda: perché non è successo? Così, dopo quel 24 luglio, ho ripreso a fare domande, per conto mio. E le risposte sono arrivate: agghiaccianti. Non sono però arrivate solo risposte; sono arrivati anche suggerimenti: come quello di smettere di guidare gli autobus.
Eh già, perché dopo la cacciata dal giornale con cui collaboravo a 5 euro al pezzo – e che mi avrebbe fatto guadagnare la candidatura a essere il primo giornalista ammazzato dalla ‘ndrangheta, in provincia di Reggio Emilia – , per campare guido gli autobus urbani a Bologna, per la Tper.
E qui il lavoro del giornalista si ferma un attimo, per riflettere; e per permettere, a chi può averne interesse, di valutare la situazione e decidere sul da farsi. Su certi fatti si può indagare, per trovare riscontri che permettano di aprire scenari nuovi. Oppure si può dimenticare tutto. Alla fine, quello che doveva succedere non è successo.
Oppure è successo qualcosa di molto simile a un omicidio; perché in una Repubblica fondata sul lavoro ci possono essere diversi modi di “uccidere” un uomo.