Ugo Tognazzi, di cui il prossimo 27 ottobre ricorrerà il trentesimo anniversario della scomparsa, oltre a essere stato un grandissimo attore, incarnava una gioia di vivere che oggi non esiste più. Buongustaio, innamorato dei piaceri della vita e valente cuoco, era solito sfornare ricette su ricette e riunire intorno a sé gli amici più cari sul litorale romano, precisamente in quel di Torvaianica, per organizzare grandi partite di tennis e altrettante serate trimalcioniche.
Del resto, in un libro scherzosamente intitolato “L’Abuffone” affermò: “Nella mia casa di Velletri c’è un enorme frigorifero che sfugge alle regole della società dei consumi. È di legno, e occupa una intera parete della grande cucina. Dalle quattro finestrelle si può spiarne l’interno, e bearsi della vista degli insaccati, dei formaggi, dei vitelli, dei quarti di manzo che pendono, maestosi, dai lucidi ganci. Questo frigorifero è la mia cappella di famiglia”.
Ugo Tognazzi, ovviamente, è stato soprattutto un genio del cinema ma questo suo carattere ridanciano, questo suo amore per il divertimento, per la battuta e per lo stare insieme, questa sua capacità di lasciarsi andare e questa sua passione per tutto ciò che fosse in grado di donare felicità al prossimo era un tratto caratteristico della sua complessità che merita di essere non solo messo in evidenza ma esaltato.
Trent’anni senza Tognazzi ci inducono, infatti, a riflettere su quanto la nostra società si sia inaridita, abbia perso il sorriso e quella dote speciale, tipica della commedia all’italiana, di saper castigare i costumi ridendo. Basti pensare a opere immortali come “Il commissario Pepe” o “Il federale”: affreschi delle nostre bassezze, delle nostre ipocrisie e della nostra sostanziale incapacità di fare i conti con noi stessi e con la nostra storia.
Tognazzi ha contribuito in maniera decisiva a smitizzare, dissacrare e ricondurre ogni cosa nel proprio alveo, mettendo in discussione i miti, i giganti e tutti gli altri esempi di retorica grondante dietro i quali abbiamo sempre mascherato le nostre insicurezze.
È stato abile, in poche parole, a fare ciò che alle nostre latitudini gli intellettuali non fanno quasi mai: prendersi gioco del potere e dei suoi cantori, metterli alla berlina e raccontarli per come sono realmente. Il fascismo decadente e ridicolo descritto ne “Il federale”, per dire, altro non è lo specchio fedele dell’Italietta del tempo, con ben poco di eroico e un degrado dei costumi non meno straziante della tragedia politica in atto.
A Ugo Tognazzi va il merito di non essersi mai arreso, di aver sempre cantato fuori dal coro, di essere sempre stato se stesso e di aver saputo vivere intensamente, con la poesia dei grandi e un interesse vivo per tutto ciò che gli accadeva intorno.
Ci ha detto addio troppo presto, a soli sessantotto anni, e di lui ci restano oltre centocinquanta film, l’ironia, il garbo e uno stile pacato ma fermissimo di cui si avverte profondamente la mancanza.
Un vuoto del genere, ahinoi, è difficile da colmare.
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