Sembra incredibile che Tony Judt ci abbia detto addio già da dieci anni: inredibile e ingiusto, direi straziante, specie se si considera ciò che abbiamo perso. Judt, infatti, era molto più di un semplice intellettuale: era una coscienza critica, un esempio di resistenza alla deriva in atto e un punto di riferimento per quanti non hanno ancora rinunciato all’utopia di costruire un altro modello di società.
Nel suo libro-manifesto, intitolato “Guasto è il mondo”, si avverte tutta l’indignazione di un galantuomo capace di prendere per mano le nuove generazioni, comprendendone il dramma esistenziale, la stanchezza, l’affanno e la paura per un domani che già dieci anni fa, quando purtroppo ci ha detto addio, apparriva alquanto nebuloso. Del resto, la durissima critica di Judt era rivolta soprattutto alla dottrina liberista, imperante a partire dagli anni Ottanta, quando, con Reagan e la Thatcher, la visione economica venne improntata unicamente all’arricchimento dei pochi, facendo credere ai molti che le briciole che l’uno per cento della società avrebbe lasciato cadere dal tavolo sarebbero bastate a garantire a tutti benessere e prospettive rosee. Una truffa senza precedenti, talmente evidente che la comunità internazionale, a cominciare dagli intellettuali e da un certo mondo politico, sarebbe dovuta insorgere. Accadde, invece, l’opposto: da qui la rottura storica fra le cosiddette “élites” e il popolo, la massa di persone che per vivere ha bisogno di lavorare, mantenendosi per lo più con mestieri poco pagati e svolti in condizioni drammatiche, e che si è sentita giustamente tradita da chi l’avrebbe dovuta difendere dal declino indotto da scelte sbagliate e disumane e, invece, di quelle scelte si è reso protagonista.
Tony Judt è stato, da questo punto di vista, un giudice implacabile, critico soprattutto nei confronti della parte politica in cui si riconosceva, mai disposto a rinunciare a un pensiero radicale e rivoluzionario, mai dimentico delle passioni della gioventù e determinato a resistere ai cedimenti che, purtroppo, hanno caratterizzato tanti esponenti della sua generazione che, al contrario, si sono trasformati, nell’ultimo trentennio, in disonesti cantori della barbarie.
Sia pur in modo diverso, partendo da una prospettiva differente, diciamo che anche Serge Latouche, che quest’anno ha compiuto ottant’anni, persegue la stessa visione del mondo, sostenendo da anni, con coraggio, la necessità di contrastare il feticcio del PIL. Personalmente, non sono mai stato entusiasta della teoria della decrescita; tuttavia, non c’è dubbio che ancor più dannosa sia la crescita smodata, a scapito dell’ambiente, del territorio, delle persone e dei diritti umani.
Fino a qualche mese fa sostenere che Latouche avesse le sue buone ragioni e che Judt fosse un gigante comportava l’ironia dei servi sciocchi, di coloro che pagherebbero per vendersi e di quanti non sono ancora in grado di comprendere i disastri arrecati da un sistema fondato sullo sfruttamento dissennato e sulla crescita delle disuguaglianze. Il Coronavirus si è incaricato di sfatare il mito della crescita infinita, già messo seriamente in discussione dalla crisi economica scoppiata a cavallo fra il 2007 e il 2008, e oggi ci troviamo a dover fare i conti con le conseguenze della nostra stupidità e di una malvagità che ha travolto tutto, mettendo a rischio il futuro delle nuove generazioni.
Tony Judt è stato sconfitto dieci anni fa dalla sclerosi laterale amiotrofica: quanto ci manca!
Iscriviti alla Newsletter di Articolo21