Aci Castello – Nove (che abbiamo visto ad Aci Castello nella splendida cornice del Lido dei Ciclopi proprio il 9 agosto) non è uno spettacolo, non è un monologo ma è un racconto che ha il sapore di una confessione. Una confessione intima, personale, autobiografica che diventa uno strumento di lotta, di rivendicazione, di denuncia per una battaglia necessaria, per il riconoscimento dell’amore.
Nove è un testo, scritto da Egle Doria e Nicola Alberto Orofino, coraggioso e spietato dove l’attrice catanese (molto nota per la sua bravura ed ecletticità, perfetta nei ruoli tragici e in quelli ironici, dallo sguardo fiero ma dolcissimo e brillante, il timbro di voce profondo, strutturato e suadente) racconta se stessa e la sua storia.
La sua è una storia “che in un mondo altro sarebbe una storia di vita normale, in un contesto sociale e politico che non fa presagire niente di buono, diventa un urlo gentile, una ferita salutare che penetra nelle coscienze e nelle vite di tutti noi.” (note di regia)
Il racconto prende la forma di un monologo serrato, dove riaffiorano personaggi ed eventi di una vita ricca di sogni e di grandi scelte; un monologo “popolato” di personaggi che sono stati determinanti nell’esistenza della Doria prima bambina e poi donna: la nonna, la madre (la scrittrice Marina Doria), le zie palermitane, il primo grande amore. A tutti questi ruoli l’attrice dà voce e corpo dimostrando di poter e saper passare dalla caratterizzazione sarcastica e comica, accentuando il dialetto palermitano, all’emozione più delicata e costruendo anche uno spaccato sociale – grazie ai pochi elementi scenici che la sapiente regia di Orofino, la collaborazione di Gabriella Caltabiano e la scenografia di Vincenzo La Mendola – che evoca la Catania degli anni Settanta e Ottanta con la sua tifoseria calcistica, la sua pretesa culturale ed economica, la rivalità con Palermo. Un microcosmo che, come sempre quando si parla di Sicilia, diventa metafora del mondo.
Al centro di questo piccolo mondo, la storia di una donna siciliana, che prima di tutto è figlia e poi sceglie di diventare madre e creare la sua di famiglia, sacra come ogni famiglia costruita sull’amore.
Prima di tutto questa donna è un’attrice, e allora il monologo comincia proprio con una telefonata (un topos nelle prove d’attore) che riproduce una conversazione che ha per scopo la ricerca di un testo da mettere in scena. Si cerca un testo classico, tragico, poi moderno, una fiaba, una santa, una madonna, una prostituta… che possa piacere al pubblico, che possa soddisfarlo. In questo passaggio iniziale, affacciata a un balconcino, la Doria domanda ai suoi interlocutori, letteralmente della strada, cosa possa “offrire al suo pubblico” , quale spettacolo.
Una risposta (ahimè) sagace arriva dal muratore che, inconsapevole, risponde “un bel caffè”…
Poi comincia la storia della sua vita scandita dal numero Nove, il numero perfetto, numero sacro che simbolicamente indica la conquista della verità e della libertà; prima nove ore, poi diciotto ore, poi, nove giorni, poi nove mesi, nove anni, diciotto anni, ventisette anni, trentasei anni. Il momento della rottura, del cambiamento, del grande dolore e della rinascita.
Arriva un momento nella vita di questa donna in cui l’amore vero bussa alla porta, inaspettato, non cercato, allontanato all’inizio ma inesorabile, inevitabile per la sua bellezza e la sua potenza.
Quell’amore che può anche stare nella stessa metà del cielo.
Questo amore è talmente grande e sincero e limpido e forte che alimenta il desiderio di moltiplicarlo, di donarlo e farlo germogliare, di mettere al mondo una vita.
Da qui la narrazione cessa di essere uno spettacolo, l’attrice cessa di recitare, la Doria esce dal ruolo ed è se stessa. Si apre in una confessione così intima da farti sentire una sua amica, una sua familiare. I suoi occhi ti cercano perché una confidenza si fa prima di tutto con lo sguardo, la sua voce si rompe in emozione e ricordo.
E comincia a raccontarti dei viaggi in Spagna, delle attese, delle analisi, delle cure dolorose, dei ripetuti viaggi, delle paure, dei colloqui coi medici, degli interventi, delle ecografie……. E della gravidanza. Quella gravidanza desiderata più di ogni cosa da cui nasce Marina. La piccola con due mamme. La piccola che ha realizzato un sogno d’amore e che vive in una meravigliosa “famiglia arcobaleno”.
Una famiglia che, ancora, scandalosamente, in Italia non è riconosciuta fino in fondo, che nel Comune di Catania non viene qualificata in quanto tale perché alla seconda mamma non è ancora consentito affiancare il proprio nome a quello della madre naturale, negando così un diritto alla bambina.
Contro i pregiudizi, contro ogni tabù la loro scelta è una scelta sacra, che alla fine viene compresa dal buon senso. Persino le vecchie zie palermitane, che all’inizio del racconto sembra siano lì solo come motivo comico, come intermezzo ironico, sanciscono a modo loro la legittimità di questa scelta e dopo il primo stupore, in coro affermano “Bonu facisti!”
Per questo ancora Egle Doria e sua moglie stanno lottando, e per questo Nove è uno spettacolo fuori dal coro ma necessario e importante.
“Abbiamo deciso di raccontare questa storia attraverso il teatro, non solo perché è il nostro mestiere e quindi il linguaggio che più conosciamo, ma perché fortemente convinti che il teatro, oggi, può avere ancora senso come splendido atto di ribellione, ironico certo, ma forte e deciso”. (note di regia)
Un atto di ribellione, forte e deciso, si compie con l’auspicio che questa “storia italiana” serva per cambiare le cose, per modificare alcune leggi che tolgono il diritto dato dall’amore.
Così, sul finale, tra la bandiera italiana e quella spagnola, parte la canzone di J-Ax e Fedez “Italiana”: Ti racconterò una storia italiana.