Di Sergio Zavoli ho molteplici ricordi: tutti belli, tutti significativi. Ricordo, ad esempio, un pomeriggio di fine giugno a Pianaccio, a margine del Premio Biagi di cui presiedeva la giuria: eravamo seduti nel salotto di casa Biagi insieme a Marina, la nipote di Enzo, figlia adottiva di Anna, e ascoltavamo rapiti i consigli e l’amarcord di quello che, a tutti gli effetti, era per noi un mito. Ricordo bene il nostro incanto di cronisti alle prime armi al cospetto di una personalità che, al pari di Biagi, aveva scritto alcune tra le pagine più belle del giornalismo italiano. Lo ascoltavamo in silenzio, gli ponevamo domande e lui ne poneva a noi, senza alterigia, senza farci sentire minimamente il peso della sua grandezza, ben cosciente che anche un uomo della sua età e del suo livello da due giovani appassionati aveva qualcosa da imparare.
Ricordo una frase che pronunciò quel pomeriggio: “Biagi era convinto che un buon cronista se le dovesse andare a cercare”. Erano stati grandi amici, avevano realizzato insieme capolavori come Dieci anni della nostra vita, dedicato alle vicende del fascismo, dal massimo del consenso alla caduta, e si volevano un bene antico, un affetto che oggi non esiste quasi più.
Biagi e Zavoli hanno costruito insieme una televisione irripetibile: gli anni di RT, di Tv7, del Processo alla tappa, delle grandi inchieste, del buongusto che non entrava certo in contrasto con la fermezza dell’analisi e con giudizi spesso taglienti e mai volti a ossequiare il potente di turno, dell’informazione che era davvero servizio pubblico e di una rivoluzione silenziosa ma capillare dei costumi e del modo di vivere.
L’altro splendido ricordo che conservo di Zavoli è legato a un pomeriggio di maggio del 2006: avevo sedici anni e venni invitato a partecipare a una riunione dell’Universitas montaliana, presieduta da Maria Luisa Spaziani, la Volpe di Montale, dedicata quel giorno all’opera poetica di Zavoli.
“La poesia è il modo più alto di pensare” sosteneva Zavoli, e aveva ragione. Quel pomeriggio, tuttavia, non c’era, essendo impegnato in una riunione col suo gruppo parlamentare in vista dell’elezione del presidente della Repubblica, eppure bastarono i suoi versi per farlo apparire presente, vivo, un testimone del tempo che, dopo aver scandagliato i diluvi del Novecento, aveva deciso di dar fondo all’anima e di rivelare un aspetto di sé che può apparire sorprendente ma non troppo, specie se si aveva la fortuna di conoscerlo un po’.
Mi colpirono molto i suoi versi dedicati a Marino Moretti, il poeta crepuscolare di Cesenatico: “Era un mercoledì, / a Cesena pioveva e sopra il marmo / del caffè si scriveva col lapis / sui libri dei sensali / il senso della vita. / Ora l’e-mail annuncia da una grotta / la fine di quel giorno, la vita rovesciata / non sa dove trovarsi, si è rotto il senso, / vanno a bersaglio parole dimezzate, / portano zolfo al cuore di ragazzi / con la legge scuoiata nelle mani, radono torri / e in un graffito lasciano il verdetto. / Il cielo è in due su noi / tra righi di matita e di pioggia”.
L’ultimo ricordo che intendo condividere è del 2012 e riguarda una mattina, in un cinema d’essai a Tarastevere. Eravamo nel pieno di una surreale campagna elettorale, le primarie per la scelta dei parlamentari del PD che si sarebbero svolte, a Roma e nel Lazio, domenica 30 dicembre. Le primarie andarono malissimo, soprattutto per il mio fraterno amico Vincenzo Vita, ma quella mattina di fine anno ebbi modo di trovarmi nel mezzo di un siparietto fra Zavoli e un maestro del cinema come Ettore Scola. L’argomento era il comune amico Federico Fellini, cui Scola stava dedicando un gioiello intitolato Che strano chiamarsi Federico. Narravano, si perdevano nei rispettivi ricordi e a me sembrava di rivedere le scene di quella Romagna ormai scomparsa, quella di Amarcord, della Gradisca, del Rex, delle spiagge estive e dell’Italietta ingenua e provinciale che viveva il fascismo senza entusiasmo né eccessivi patemi d’animo. Sembrava che Fellini fosse lì con noi, me lo vedevo davanti e ne scoprivo i sogni, le speranze e il pensiero dalla viva voce di due cantori d’eccezione.
Zavoli era il poeta dei fatti, uno dei pochi, a sinistra, ad aver compreso l’importanza di mescolare i generi, di fondere l’alto e il basso, di coniugare lo spessore culturale degli intellettuali con il romanzo popolare dello sport e le grandi passioni degli italiani, su tutte il ciclismo.
Una delle sue composizioni più significative riguarda il primo bombardamento cui assistette, il 2 novembre del ’43. È contenuta nella raccolta La strategia dell’ombra e recita: “Mi guardo intorno / e non riesco a dirmi / se siamo in pace / o all’erta sui bastioni: / se ho sul capo il celeste dipinto / nel cielo dei teatri e delle chiese, / o l’acciaio che fa le prove / per il giorno dei morti, e aggiungerne di nuovi”.
Un commosso addio.
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