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Raccontare i migranti, raccontare umanità diverse

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L’arte ha sempre avuto, oltre che un grande ruolo culturale e divulgativo, anche un importante significato sociale. L’arte osa dove altre disciplinane esitano, mostra e racconta ciò che tante volte si omette o si ignora. Viene in mente un celebre quadro di Sandro Botticelli, che nel 1500 dipinse uno straniero, Michele Marullo Tarcaniota. L’opera ritrae un uomo con lo sguardo infelice, le labbra serrate, che guarda di sbieco. Marullo, che era un soldato-poeta, a seguito della caduta di Costantinopoli fu costretto a lasciare la terra d’origine, senza più farvi ritorno, trovando accoglienza alla corte di Lorenzo il Magnifico, dove seppe farsi apprezzare per il suo talento. Scrisse, tra le varie opere, un epigramma sul suo esilio, “Elegie sulla patria perduta e altre poesie”. Il critico letterario Benedetto Croce lo riconobbe come uno tra i più grandi poeti del Quattrocento: “Forse più alto di tutti volò il Marullo”. Il soldato-poeta trovò la morte combattendo per Caterina Sforza contro l’esercito di Cesare Borgia, annegando mentre cercava di attraversare il fiume Cecina a cavallo. Il suo ritratto fu commissionato dai suoi amici dopo la sua morte, proprio per rendergli omaggio.  Nel suo libro “L’ora d’arte”, Einaudi Editore, Tomaso Montanari definisce lo sguardo del Marullo “deluso” e aggiunge: “È davvero paradossale fuggire alla guerra e alla persecuzione, per finire annegati in un placido fiumicello toscano, a primavera”. Questa vicenda, accaduta secoli fa, risuona più che mai attuale, come se in secoli di storia le migrazioni avessero mantenuto le stesse difficoltà e tragedie, mutando però popoli protagonisti e contesto geografico.

Lo straniero Marullo, grazie alla sua arte, seppe distinguersi tra i tanti stranieri e i tanti soldati della sua epoca. Venne riconosciuto il suo talento e gli fu data la possibilità di continuare a scrivere e farsi apprezzare, tanto che alla sua morte altri amici artisti non vollero che la sua storia andasse dimenticata. La fortuna di Marullo, se si può usare questa parola, fu nel fatto che venne guardato e considerato come essere umano. Nessuno pensò di criticare Botticelli e gli altri artisti per questo loro sguardo verso il poeta. Di esempi simili è ricca la letteratura e l’arte in generale, che non conoscono il filtro della paura e del pregiudizio e sanno raccontare la società nelle sue infinite sfumature. Una caratteristica che non si è mai persa, fino ai giorni nostri. Nel 2015 Banksy dipinse su un muro del campo profughi di Calais, in Francia, il graffio di Steve Jobs in fuga con una sacca e un vecchio computer Apple, ricordando che Jobs era figlio di un migrante siriano.

Musica, pittura e letteratura continuano a ritrarre i diversi volti dell’umanità, proprio come fa, con un linguaggio e un fine diverso, il giornalismo, che è testimonianza e ricerca della verità. I cronisti che vanno nelle periferie, che scoperchiano vasi di Pandora con le loro inchieste, che danno voce agli emarginati e a quei volti umani che si preferirebbe ignorare, danno un contributo importante, che nobilita il mestiere tanto quello dei colleghi che fanno cronaca. Il giornalista cattura frammenti di verità e li riferisce, da testimone prezioso, senza omettere e senza colorare il suo racconto, che piaccia o meno ciò che documenta e racconta. Non è un ambasciator che non porta, è un testimone, un narratore consapevole che contestualizza, pone interrogativi, eppure oggi chi racconta spaccati della cronaca che qualcuno vorrebbe omettere o censurare, viene spesso preso di mira, insultato, attaccato, accusato di comportamenti non professionali, persino illegali. Chi racconta di popoli che si ribellano a carnefici e terroristi viene accusato di essere un sovversivo, se non un complice di questi ultimi e chi racconta degli sbarchi di migranti, viene accusato di fomentare le partenze illegali. Si attribuisce, a chi fa la cronaca di questi fatti drammatici, la responsabilità dei fatti stessi. E lo si fa in modo subdolo, azionando una macchina del fango pericolosa, che spesso è anche misogina.

Recentemente, tra le colleghe e i colleghi che hanno raccontato gli sbarchi, è stata presa di mira anche Angela Caponnetto, giornalista di RaiNews24 che da anni si occupa di migrazioni. Nel suo libro “Attraverso i tuoi occhi. Cronache delle migrazioni” Piemme Editore, la cronista scrive: “Nel momento stesso in cui ho deciso di dover andare oltre la narrazione stereotipata delle migrazioni e cercare di capire cosa la spinge, e cosa succede dopo a chi riesce ad arrivare a destinazione, in quel momento mi sono così ritrovata “dentro la notizia”. Quasi senza accorgermene ero diventata parte della storia che stavo riportando, rimanendo pur sempre voce narrante. Inoltre, più stavo sul campo più una cosa mi diventava chiara: se la storia delle migrazioni è vecchia quanto il mondo, è il modo in cui si racconta che cambia a seconda di chi è il narratore e dato che per me il giornalismo racconta fatti ma non li lascia freddi e senz’anima, ho deciso di entrare nella notizia come mi avevano insegnato: mettendoci testa, piedi, mani e cuore”. In queste parole di Angela Caponnetto c’è tutta la passione e il coraggio di chi sceglie di fare il giornalista. È questo, forse, che spaventa molti: la cronista restituisce il volto umano dell’altro, del migrante in questo caso, andando contro la narrazione di chi attribuisce al diverso ogni male. La Caponnetto racconta fatti, non scrive sentenze, non assolve e non condanna. Fa, semplicemente e con umanità, il suo lavoro.

Secoli prima, in Sicilia, ancor oggi terra d’arrivo e di transito di popoli diversi, si scriveva una pagina di storia che aveva a che fare con le migrazioni, anche se in modo indiretto. Il poeta arabo-siciliano Ibn Hamdis, nato a Siracusa nel 1056, al momento dell’esilio in seguito alla vittoria dei Normanni scrisse: “Sicilia mia. Disperato dolore/si rinnova per te nella memoria/Giovinezza. Rivedo le felici follie perdute/e gli amici splendidi/Oh paradiso da cui fui cacciato!/Che vale ricordare il tuo fulgore?/Mie lacrime. Se troppo non sapeste di amaro formereste ora i suoi fiumi”. All’epoca non si parlava ancora di cittadinanza, né di cosiddette seconde o terze generazioni, né tantomeno di “nuovi siciliani”. C’erano, allora come oggi, figli di stranieri che dai genitori non avevano ereditato la condizione di migranti e finivano così per sentirsi naturalmente figli di quella terra, per innamorarsene come si può amare la propria madre patria, tanto da volerla difendere anche a costo della vita, e da sentirsi morire dentro, se costretti ad abbandonarla. Se non fosse per quelle poesie, difficilmente avremmo conosciuto questa sfumatura della storia, con il punto di vista e i sentimenti di chi ha scritto quelle bellissime liriche. Figli di migranti che scrivono poesie d’amore alla terra d’accoglienza, che chiamano casa. Ma questa è un’altra storia.


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