Conobbi Mario Paciolla qualche anno fa a Napoli, ero nel pieno dei preparativi di “Imbavagliati”, Festival Internazionale di Giornalismo civile, che dirigo da cinque anni; mi propose di invitare una testimone/giornalista sotto minaccia. Mi colpi l’entusiasmo, la grinta, di questo ragazzo esile, ma molto più forte della sua forza. Un professionista preparato, come raramente ho visto. Entusiasta, con grandi ideali e la voglia di difenderli. A tutti i costi. Accompagnava ogni concetto con un modo di gesticolare articolato. Credo tipico di chi deve farsi capire in fretta, anche in terre lontane. Mario, impegnato come osservatore dell’Onu per il rispetto degli Accordi di Pacea San Vicente del Caguàn purtroppo è stato trovato morto a casa sua il 15 luglio scorso, a soli 33 anni. Su quello che ormai viene considerato un delitto, all’inizio camuffato da suicidio, è di quattro giorni fa la notizia della Procura generale della Nazione, che ha ordinato in Colombia l’apertura di una inchiesta sui membri della polizia criminale colombiana (Sijin) che permisero all’indomani della dipartita di Paciolla di prelevare tutti i suoi effetti personali ed alterare il luogo centrale delle indagini per risalire alle cause del decesso.
Fin da poche ore dopo la tragica notizia della sua fine si sono moltiplicati immediatamente, in Italia e all’estero appelli, petizioni per chiedere verità e giustizia per questo per questo ragazzo “difensore della pace”. Nella sua città il 30 luglio in una manifestazione pubblica, alla presenza del presidente della Camera Roberto Fico, il ministro degli esteri Luigi Di Maio, il senatore Sandro Ruotolo e il sindaco di Napoli Luigi de Magistris, in 300 tra suoi colleghi, venuti anche dall’estero, amici di una vita, si sono stretti attorno al dolore dei genitori, ricordando il valore di un ragazzo che portava avanti con coraggio importanti battaglie di solidarietà per costruire un mondo migliore.
Ma Mario era anche un giornalista, uno scrittore, un poeta. E la sua forza, il suo talento gli sopravvivono! Per questo vogliamo riportare integralmente un suo scritto, pubblicato su Iuppiternews, il 7 ottobre 2013, con uno pseudonimo. “A volte mi chiedo – scrive – perché sono costretto ad andare fuori per amare la mia città”. In questo articolo l’autore rivela il suo sconfinato amore per Napoli. Paciolla è un cittadino del mondo, che cerca la sua terra in luoghi lontani, distante miglia da stereotipi e sensazionalismi e attraverso una elegante prosa poetica. Fossero sapori, insegne, suoni, di chi riesce a vedere oltre le apparenze e guarda con l’anima.
Tutte le voci portano a Napoli
di Mario Paciolla
(Iuppiternews, 7 ottobre 2013)
La voce di Napoli è ovunque. Almeno ovunque io sia stato. Nell’estate del 2007, la incontrai per ben due volte in una delle capitali del mondo. Dovevamo raggiungere Westminster e cambiammo linea alla stazione di Embankment. Mentre percorrevamo gli immensi corridoi della rete metropolitana più antica e grande del mondo, un brivido entrò dall’orecchio, mentre un gruppetto di artisti di strada richiamavano alla mente l’eco d’una dolce “Santa Lucia”. Il giorno dopo andammo a fare compere a Covent Garden, una delle zone più movimentate della città, costellata di mille bancarelle e numerosi ristorantini turistici. Da una di quelle piccole piazzette all’aperto uscì un cameriere tonante. L’intera piazza si fermò ad ascoltare la canzone d’amore, che come un sole uscì a rischiarare il grigio cielo londinese.
Ritrovai la voce di Napoli numerose volte durante il mio soggiorno itinerante in Andalucia. A Cadiz, piccolo lembo di terra lanciato con un lazzo di cemento nell’Oceano Atlantico, lessi il suo nome. Passeggiavo lungo il corso, con l’Oceano di fianco, in direzione opposta al castello di San Sebastian. Cercavo nell’ombra notturna la grande cupola dorata della cattedrale, quando distratto, guardando dinanzi a me scorsi una grande insegna tricolore col nome “Caruso”, che dava il nome alla modesta pizzeria. Comprai una margherita pessima, piccola e costosa per rendergli omaggio nel porto dei poeti. Giunto a Tarifa, mi persi tra i piccoli barettini del borgo marinaro ed anche lì scorsi una piccola insegna “Vesuvius Café”, con una sua foto accanto. Affrontai una lunga discussione sulla musica classica con la “Abuela Carmen”, la nonna di San Sebastian che mi adottò durante il mio periodo di lavoro a Valencia. Mi disse che fremeva ogni volta che ascoltava la Callas cantare e che l’Italia era stata resa grande dalla voce di Pavarotti. La ascoltai a lungo, prima di rispondere.
“Tutto quello che vuole, Abuela. Però il migliore, il re, il più grande di tutti i tempi, resta comunque Caruso…”. Mi guardò un po’ contrariata, sostenendo che la voce di Pavarotti forse, tecnicamente, era più maestosa. “Probabilmente sì… l’unica differenza è proprio questa. Pavarotti canta con la voce. Caruso col cuore”. Si fece una grossissima risata grossa, e mi sorrise, acconsentendo. Potrei continuare ancora, dicendovi che l’altro giorno l’ho ascoltata anche tra i piccoli borghi fiorentini. Senza dimenticare che la voce di Napoli è arrivata sino ad Iquitos, nel pieno della foresta amazzonica. A volte mi chiedo perché sono costretto ad andare fuori per amare la mia città. Perché non posso essere libero di ascoltare davanti Castel dell’Ovo il vecchietto paffuto col violino e cantare con lui davanti Santa Lucia o inneggiare ad una bella giornata di sole. Perché non posso andare fiero della mia città, leggendo inchiostro parigino, Stendhal che dice che l’unica possibile capitale d’Europa insieme a Parigi e Londra, è solo Napoli. Goethe che prima di “vedere Napoli e poi morire”, aveva visitato sia Roma che Firenze. Caruso, la voce pulsante e vibrante della passione napoletana, inebria le orecchie del mondo. Voce del cuore. Voce d’amore.
A qualsiasi straniero mi chieda come o cosa sia Napoli, rispondo “Vedi e ascolti Napoli, poi muori”, con la stessa presunzione dei vecchietti granadini nascosti nell’ombra dell’Albayzìn, che indicando l’Alhambra dicono “No hay cosa peyor por un hombre, de ser un ciego a Granada”, e se ne vanno. Molte volte, per parlare di Napoli, dico semplicemente, come scriveva Croce, “Napoli è un Paradiso abitato da diavoli”. Gli stessi diavoli, senza onore né patria, che hanno profanato la tomba dello spirito napoletano.