La retromarcia cinquestelle in deroga è continua. Il perentorio “mai alleanze” è stato infranto prima nel giugno del 2018 (governo con la Lega) e poi nel settembre 2019 (esecutivo con il Pd). Quindi con alcune intese con i democratici nelle elezioni regionali (come in Umbria). Pur di andare al governo Beppe Grillo e Luigi Di Maio accettarono e giustificarono l’accordo con due storici avversari: la Lega di Salvini e il Pd di Zingaretti.
La retromarcia cinquestelle, motivata con la necessità di realizzare il programma anti èlite ed euroscettico, ha collezionato clamorosi dietrofront proprio su tante battaglie identitarie. Sull’ambiente i dietrofront non si contano: il no al metanodotto Tap in Puglia è diventato sì, la chiusura dell’acciaierie ex Ilva di Taranto non c’è stata e nemmeno il suo rilancio, la bocciatura della Tav (l’alta velocità ferroviaria) Torino-Lione si è trasformata nella promozione del progetto. L’addio all’euro si è trasformato nell’accettazione della moneta unica europea, i grillini sono diventati da euroscettici a europeisti votando per l’elezione di Ursula von der Leyen a presidente della commissione europea.
Adesso l’omologazione del M5S al Sistema prosegue: è caduta anche la regola sacra del tetto ai due mandati elettorali per tutti i parlamentari, i consiglieri regionali e comunali. C’è una nuova deroga. Virginia Raggi è stata accontentata: potrà ricandidarsi a sindaca di Roma. La maggioranza di quasi cinquantamila militanti grillini sulla piattaforma Rousseau ha votato a favore del terzo mandato elettorale e dell’intesa con i “partiti tradizionali” per affrontare le consultazioni previste a settembre in sette regioni.
Sono caduti due tabù. È stata annullata la norma del tetto dei due mandati per evitare l’omologazione alla “casta”, per far tornare gli eletti cinquestelle al loro lavoro scongiurando il rischio dei politici di professione. È stato cancellato anche il divieto delle alleanze con i “partiti tradizionali”.
Si tratta di due deroghe a due precetti identitari del M5S fondato da Beppe Grillo e Gianroberto Casaleggio. Molti parlamentari pentastellati, quelli non espulsi o che non hanno detto addio, festeggiano: circa il 35% ha due mandati e non avrebbe potuto puntare sul terzo.
Di contraddizione in contraddizione, di deroga in deroga. Grillo proclamò «inamovibili» regole come quella dei due mandati popolari, anzi sentenziò: «Mai deroghe». Adesso invece incita in dialetto romanesco Virginia Raggi a correre per la terza volta in Campidoglio: «Daje».
La retromarcia cinquestelle è costata carissima. Il M5S, con l’abbandono dell’anti politica e del populismo, è precipitato dal 32% dei voti delle elezioni politiche del 2018, al 17% delle europee del 2019, a meno del 10% in molte consultazioni regionali. L’abbandono dell’opposizione antagonistica di un tempo e la scarsezza dei risultati nell’attività di governo in favore dei ceti deboli hanno causato una enorme emorragia di voti.
L’emblema del tracollo grillino è il flop della Raggi nell’amministrazione della città eterna, capitale dei disservizi. Ma la sindaca di Roma è entusiasta: «Mi ricandido…Grazie a tutti per il sostegno». Tuttavia molti romani che la elessero trionfalmente nel 2016 non la pensano così, e le critiche alla sindaca arrivano anche da larghi settori dei cinquestelle. Nel 2021, nelle elezioni per il Campidoglio, si vedrà come andrà a finire. Ma già a fine settembre peserà il test del voto in sette regioni.