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Lanthimos, l’anestesista della solitudine. Un saggio per Mimesis

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In poco meno di vent’anni è diventato un regista osannato, un maestro della settima arte, incidendo con uno stile disturbante, crudo ed essenziale, seppur attentissimo alla resa dell’immagine. Yorgos Lanthimos, ateniese classe 1973, è il regista che più di ogni altro ha saputo trasformare la sua provenienza da una cinematografia periferica, se non quasi irrilevante, in un punto di forza, imponendosi come “autore” indiscusso. A lui la collana Mimesis/Cinema dedica “Anestesia di solitudini”, una intensa e partecipata monografia, a firma di Roberto Lasagna, saggista, critico cinematografico di consolidata esperienza e di Benedetta Pallavidino, giovane editor freelance e affermata critica per “Cineforum”.

I dieci capitoli del libro pur funzionando come accuratissime analisi della cinematografia di Lanthimos – dagli esordi nel 2001 con O kalyteros mou filos (My best friend), di cui condivide la regia con Lakis Lazopoulos, al successo internazionale de La favorita – ha il merito di mettere a fuoco i territori di indagine di Lanthimos, a partire soprattutto dal corpo e dal linguaggio, all’interno di una condizione umana in continua fuga da se stessa; una umanità ossessionata dal dolore e dall’oppressione, dall’insignificanza e dall’impossibilità. Lanthimos indaga i riti della sopraffazione – da Kinetta (2005) a Kynodontas (2009) soprattutto, fino a The lobster (2017) – le spirali autodistruttive e violente degli individui, riuscendo poi a passare “dall’astrazione metafisica, alla coscienza storica” proprio con La favorita (2019). Un aspetto interessante della monografia è la sottolineatura dell’importanza decisiva della musica – anzi delle “strutture musicali” – dell’opera di Lanthimos (vicina al cinema muto e a Buñuel) in rapporto alla sfera affettiva dei personaggi come accede nel corto Nimic (2019), il cui titolo punta pure sull’ambiguità del linguaggio, giocando sulla somiglianza con “imitatore” (“mimic” in inglese) o “niente” (in rumeno). Il regista greco insomma “è sempre alla ricerca di immagini e situazioni in grado di tuffarci nel vuoto, nell’incertezza, turbando quel sonno della coscienza che troppe volte si nasconde nell’anestesia delle relazioni.” Il capitolo a nostro avviso cruciale, per comprendere lo stile e il senso dell’idea di cinema secondo Lanthimos è il secondo: “Non solo Suicide. La New Wave greca tra racconto sociale e sperimentazione”, nel quale gli autori ripercorrono gli anni della formazione di Lanthimos così come di altri protagonisti del cinema nella Grecia della crisi degli anni 2000, priva di risorse economiche e quasi indifferente all’insegnamento dei cineasti precedenti. Una Grecia nella quale Lanthimos si fa portavoce “della desolazione industriale e urbanistica” grazie anche all’apporto di Athina Rachel Tsangari – che produce i suoi primi film – ed è capace di filtrare la lezione che in quegli anni Lars Von Trier e Thomas Vinterberg impartivano con “Dogma 95”, sorta di “voto di castità” contro il dilagare degli effetti speciali e delle corporazioni cinematografiche economicamente potenti, e che culmina in Kynodontas (2009) che a Cannes vince il premio come miglior film nella sezione “Un Certain Regard”. Anche per questo nel cinema del regista greco la realtà è quella di una umanità votata all’individualismo, materialista, determinata da regole inflessibili, nella quale la famiglia è un luogo oscuro – appunto la “casa atroce casa” di Kynodontas – e i cui membri vivono quasi senza vita: una “anestesia generale” che culminerà ne Il sacrificio del cervo sacro (2017). Seguendo l’ordine cronologico delle opere di Lanthimos, il saggio si conclude con la riflessione sul già citato Nimic, tagliente fotografia della miseria umana e soprattutto sui “Giochi di potere barocchi” dell’universo femminile de La favorita (2019). Pur essendo il suo film più mainstream – e della cui sceneggiatura (a firma di Deborah Davis) si interessa già alla fine del 2010 – Lanthimos è riuscito a mantenere intatta la sua carica negativa, delineando la brutalità morale, l’abiezione, la sete d’affetto di tre donne. Certo, anche il cast d’eccellenza ha giovato al film (Olivia Colman vince a Venezia la Coppa Volpi e poco dopo l’Oscar come Miglior Attrice) ma il regista dimostra la continuità allegorica al suo cinema precedente, cita tra le righe il Barry Lyndon di Kubrick, così come di quest’ultimo erano impregnati sia The lobster sia Il sacrificio del cervo sacro. Una filmografia accurata e una bibliografia chiudono un testo scorrevole e a tratti affascinante di un cinema che diventa una disturbante allegoria. Un cinema in cui “piangere senza essere visti” e in cui “vedere a occhi chiusi e aperti.”

Roberto Lasagna, Benedetta Pallavidino, Anestesia di solitudini. Il cinema di Yorgos Lanthimos, Minesis/Cinema, Milano-Udine 2019, euro 12,00 


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