Il 27 febbraio del 2000, in Francia, Suzanne Viguier scompare senza lasciare traccia, il primo sospettato è il marito, Jacques, un professore di diritto che verrà accusato dell’omicidio (pur senza cadavere) della moglie e affronterà 10 anni di processo, al termine del quale verrà assolto, ma il procuratore ricorrerà in appello.
Da questo punto esattamente prende il via il film Un’intima convinzione di Antoine Raimbault (in uscita il 30 luglio), un regista appassionato al tema della giustizia, che ha seguito diverse volte processi e indagini giudiziarie per conoscere le dinamiche della giustizia in Francia.
Avendo assistito ai due processi di Jacques Viguier e avendo conosciuto e parlato con i figli di Jacques e Suzy, che si erano rassegnati a questa terribile equazione: «Mamma è scomparsa e papà è accusato di averla uccisa», il regista ha preso in carico il calvario di quella famiglia condannata all’incertezza e ha deciso di raccontare questo processo così particolare in un film con la convinzione che uno dei ruoli del cinema sia di offrire una prospettiva reinterrogando il reale. Un merito dell’opera, infatti, è quello di mostrare la giustizia a distanza ravvicinata. Far vedere la corte d’assise oggi. Renderne la complessità e tentare di coglierne la potenza drammatica.
Il regista ci tiene a precisare che il film rispetta scrupolosamente ciò che si è detto nelle udienze e nelle intercettazioni telefoniche.
L’invenzione di Raimbault si è però permessa di creare il personaggio protagonista, che diventa il cardine dell’inchiesta, che convince prima e poi supporta l’avvocato difensore di Viguier (il ruvido avvocato Dupond Moretti), Nora, una donna che ha presenziato al processo ed è convinta della innocenza dell’imputato.
La ricerca della verità di Nora si trasformerà in un’ossessione, lei lavora a fianco dell’avvocato, ascoltando migliaia di ore di intercettazioni, per sostenere la difesa e cercare la giustizia vera.
Poco importa che altri dubitino, poco importa l’assenza di prove; Nora è convinta di quella innocenza; una volta insinuatasi, questa convinzione prevale su tutto. Il film affronta precisamente questo meccanismo oscuro: il dominio della convinzione sulla ragione.
“Dalla mia ossessione per il caso” – ha dichiarato Raimbault – “è nata un’ossessione cinematografica che ha generato un personaggio ossessivo. Il cerchio si è chiuso. Questo personaggio profano, elettore libero dietro le quinte della macchina giudiziaria, inevitabilmente sono un po’ io”.
Secondo la scelta del regista, Un’intima convinzione non è un film a tesi. Le domande sono infinitamente più importanti delle risposte. Lo scopo, infatti, è di indurre alla riflessione. Assumendo il punto di vista di Nora; attraverso la sua controinchiesta, lo spettatore assume la sua stessa convinzione, anche al di là di ogni ragionevole dubbio.
In sostanza, il film racconta che la ricerca della verità può rendere folli. E che tutti possiamo perdere l’equilibrio. “Nora incarna tanto l’immagine di una figura di giustiziere quanto una riflessione introspettiva sul pericolo delle nostre certezze”. L’intima convinzione è un sentimento.
Questo, che è certamente un legal movie, non somiglia affatto alle pellicole americane di questo genere, perché nella procedura accusatoria, molto rappresentata dal cinema statunitense, la difesa e l’accusa agiscono per la manifestazione della verità. Raimbault è, invece, consapevole che in Francia l’idea di verità venga dall’alto, che sia quasi confiscata al popolo e lasciata nelle mani dei ‘sapienti’. La difesa ha il compito arduo di far valere il dubbio.
La struttura narrativa, la suspense che ne scaturisce, la partecipazione emotiva all’indagine, sono centrate sul personaggio di Nora, l’attrice Marina Foïs, che ha saputo rendere una donna carica di mistero – non ci sono spiegazioni nel film sulla sua vita privata, sul perché viva sola con un figlio, sulla sua relazione con il proprietario del ristorante per il quale lavora – e capace di gestire un’indagine con sapienza ma anche con determinazione. La Foïs ha dato molto al personaggio. L’essenziale, vale a dire l’incarnazione, i gesti, il ritmo, un corpo in tensione permanente. Nora è un’oltranzista, un po’ al limite. Su di lei la convinzione agisce come una droga potente.
È un film cerebrale, con dei concetti, un film di parole ma la gestualità, la mimica della protagonista, la sua energia e potenza portano lo spettatore dentro la storia.
Alla regia e al montaggio va il merito di aver creato una struttura a spirale con inquadrature ampie, quasi sempre in interni, con al centro Nora che si muove al parossismo della sua ossessione. L’inquadratura si stringe sulle mani, i post-it, lo schermo del computer, la portiera della sua auto… Questa frammentazione dello spazio e del tempo dice qualcosa del suo disorientamento.
Malgrado il verdetto finale della giuria, nella conclusione del film non percepiamo il trionfo della verità (nella realtà dei fatti non si è ancora accertato se la donna sia effettivamente morta o sparita), e forse neanche della Giustizia. L’arringa conclusiva dell’avvocato difensore è un trionfo di ars oratoria e di logica ferrea, con la quale la sceneggiatura focalizza l’idea fondante del film, che la giustizia sia prima di tutto la firma di coloro che la dispensano, una decisione individuale fondata su una intima convinzione; l’avvocato definisce il processo che si sta svolgendo come kafkiano e surreale perché fondato su supposizioni e probabilità, nessuna prova. E questa sarà la sua arma vincente.
Sulla gioia di Nora e dei figli dell’accusato, dell’avvocato e dell’imputato si innesca una colonna sonora, di Gregoire Auger, con un pizzicato di chitarra che sottolinea l’emozione di tutti, gli abbracci e i sorrisi, consegnando la stessa emozione allo spettatore.