Due sono soprattutto le novità del libro di Enzo Ciconte Alle origini della nuova ‘ndrangheta. Il 1980 (Rubbettino, pp. 204, euro 15), anche per il mutamento epocale che la ‘ndrangheta ha impresso da quei giorni nella gerarchia delle organizzazioni criminali più temute. La prima riguarda la “valorizzazione” a quaranta anni esatti dalla loro uccisione delle figure di Peppe Valarioti e Giannino Losardo, che attendono ancora giustizia; la seconda concerne “l’esplorazione” dei rapporti conflittuali che attorno a questi omicidi videro schierarsi le due maggiori forze della sinistra, il PCI e il PSI, dando per scontata la “complicità” della DC e dei partiti minori come PRI e PSDI con la ‘ndrangheta. “Il 1980 è un anno di cambiamento, di sperimentazione e di anticipazione. E’ l’anno in cui appare più vistosa la trasformazione della ‘ndrangheta che accentua la mutazione dei suoi caratteri originari che erano legati al mondo agricolo.” Ciconte, docente di Storia delle mafie italiane presso l’Università di Pavia, ne dà un resoconto interessantissimo, preavvertendoci che nelle ricostruzioni storiche di quegli anni “c’è un vistoso buco: la Calabria.” Fin dall’incipit lo storico calabrese si premura di contestualizzare lo scenario in cui vanno inseriti gli accadimenti.
A Palermo il 6 gennaio viene ucciso dalla mafia il Presidente democristiano della Regione Siciliana Piersanti Mattarella; i potenti costruttori romani Caltagirone sono coinvolti nello scandalo nazionale Italcasse, che costringe alle dimissioni il ministro Evangelisti; un altro scandalo, quello dei petroli, coinvolge alti ufficiali della Guardia di Finanza come il generale Lo Giudice e il ministro democristiano Bisaglia. L’Italia vive uno dei momenti più oscuri del dopoguerra. Il finanziere Michele Sindona è arrestato negli USA per il fallimento della Franklin National Bank, e indiziato in Italia per l’omicidio Ambrosoli.Molti sono i morti per mafia e terrorismo: il 12 febbraio a Roma Vittorio Bachelet, vicepresidente del CSM e docente universitario, è assassinato dalle Brigate Rosse all’interno dell’università; il 19 marzo a Milano il giudice Guido Galli viene ucciso da Prima Linea; il 28 maggio a Milano viene ucciso il giornalista del Corriere della Sera Walter Tobagi. Non si placa nel contempo la strategia della tensione. L’Italia è, fin dal dopoguerra, un paese in bilico tra comunismo e liberalismo, in equilibrio instabile nella guerra che si gioca tra NATO e Patto di Varsavia: il 27 giugno un aereo della Itavia con a bordo quattro membri dell’equipaggio e settantasette passeggeri, che da Bologna deve raggiungere Palermo, viene abbattuto da missili “sconosciuti” nei cieli sopra Ustica; il 2 agosto a Bologna una bomba esplode nella sala d’attesa della stazione causando ottantacinque morti e centinaia di feriti. In autunno lo scontro sociale in atto nel paese vede sfilare a Torino, squassata dalla cassa integrazione per decine di migliaia di operai della Fiat e dell’indotto, la Marcia dei quarantamila che manifestano per il ritorno alla “normalità” della città.
E’ l’inizio del cosiddetto riflusso degli anni ’80. L’anno si chiude con il terremoto dell’Irpinia del 23 novembre che provoca circa tremila morti, diecimila feriti e centinaia di migliaia di sfollati. In questo quadro la Calabria, che da sempre è considerata una terra periferica, così arretrata da apparire quasi esotica, continua a suscitare nell’opinione pubblica italiana scarsa attenzione, complici anche i giornali e la politica nazionali. Eppure stanno per accadere fatti che avranno conseguenze sulla storia criminale e sociale dell’intera Italia. L’emergere della potenza ‘ndranghetista non si può capire senza la gravità della questione sociale calabrese di cui i moti di Reggio Calabria del 1970 sono in qualche modo un segnale. Dietro la protesta, fagocitata poi dalla destra, per l’assegnazione a Catanzaro di capoluogo si cela un profondo malessere per la situazione complessiva della regione. Mancanza di lavoro ed emigrazione sono due piaghe profonde a cui nemmeno il pacchetto previsto dal ministro Colombo trova rimedio. Il Quinto Centro Siderurgico di Gioia Tauro, la Sir di Lamezia Terme, la Liquichimica di Saline Joniche non decolleranno mai. L’industrializzazione prevista fin dai ’60 dai governi DC-PSI si scontra con la perifericità della regione e con le nuove dinamiche economiche internazionali che rendono obsoleti prima della loro nascita questi faraonici progetti. Con il senno di poi appare chiaro che la Calabria per la sua posizione geografica, per la sua varietà naturalistica e climatica è una regione votata più all’agricoltura di qualità e al turismo che all’industria. Purtroppo la strada intrapresa in quegli anni dà alimento alla criminalità e all’ingordigia dei corrotti trovando resistenze limitate a causa della impreparazione morale e culturale di molti cittadini e di coloro che devono guidarli. Nel mese di giugno del 1980 due tragici assassinii avviano una diversa strategia con cui la ‘ndrangheta dall’era premoderna si catapulta in quella (post)moderna. L’accumulo primario di capitali, accentuatosi fin dagli anni ’70 attraverso i sequestri e il controllo dei mezzi per movimento-terra (autostrada, metanodotto, porti e edilizia privata), la proietta verso attività ben più remunerative come la droga, il contrabbando, le armi e gli investimenti finanziari e commerciali. Non possono esserci ostacoli all’arricchimento veloce.
L’11 giugno di quarant’anni fa a Rosarno (RC) la ‘ndrangheta uccide Giuseppe Valarioti, intellettuale di umili origini, giovane segretario del PCI locale, che si oppone alla potente cosca dei Pesce. Dieci giorni dopo viene assassinato a Cetraro (CS) Giannino Losardo, dirigente comunista, già sindaco della cittadina tirrenica, assessore, segretario-capo della procura di Paola, che si è messo ad ostacolare il “re del pesce” Francesco Muto che dal mercato ittico tende a espandersi verso tutte le attività economiche dell’alto Tirreno cosentino. Scrive Ciconte: “Losardo si scontra con un pericoloso grumo di potere e di interessi di varia natura che intrecciava mafia e politica in un vincolo che era difficile da abbattere.” A Rosarno l’omicidio di Valarioti è per molti aspetti complicato da un contesto in cui addirittura si nega l’esistenza della mafia, come dichiarato dagli amministratori stessi della cittadina: “Non ne so niente con precisione, credetemi” – afferma il vicesindaco, il democristiano Raffaele Rocco Lavorato, mentre il sindaco, il socialista Antonino Rao, va oltre, infamando la fidanzata stessa dell’assassinato e spingendo le indagini verso un delitto passionale. Tra le tante piste battute infine i sospetti si addensano sulla cooperativa Rinascita, costituita da compagni comunisti e socialisti, e nata per rompere il monopolio dei Pesce sul mercato agrumicolo. Valarioti opera “una certa azione di moralizzazione all’interno della cooperativa” convinto dell’infiltrazione degli uomini del clan. Per questo viene ucciso. Nonostante la presenza ai funerali di Berlinguer e dei massimi esponenti del partito, la sua morte apre una ferita profonda nel partito locale: sospetti e espulsioni rendono tutto più triste e problematico. Non è casuale che sia il PCI a mostrare più resistenza alla trasformazione criminale della regione, dove i mafiosi in quegli anni cominciano ad affrancarsi dalla tradizionale subalternità alla politica candidando propri rappresentanti alla regione e nei comuni più importanti. Per propria storia e ideologia gli uomini del partito comunista sono più pronti ad esporsi. Ma ora è diverso, perché gli interessi in campo sono divenuti colossali. Non si tratta più di avere a che fare con lo strapotere paesano e agricolo del capo cosca locale, ma con una nuova brama di arricchimento veloce delle famiglie criminali che stanno solidificandosi nei comuni calabri, inizialmente reggini. Cosa è la ‘ndrangheta? Su questo interrogativo si scontrano il PCI e il PSI, in particolare la corrente di Giacomo Mancini, che si avvale anche di un organo di stampa, Il giornale di Calabria, per sostenere le proprie tesi. Giacomo Mancini espone chiaramente le sue tesi sulla ‘ndrangheta in seguito alle polemiche tra i due partiti dopo il funerale di Losardo a cui ha partecipato Berlinguer. Ci ricorda Ciconte che “Mancini contesta la tesi secondo cui una mente mafiosa avrebbe deciso l’eliminazione dei comunisti calabresi (…) se questo fosse vero allora – secondo il leader socialista – la conseguenza sarebbe che in Calabria non sono possibili vita politica e vita democratica.” Il sottotitolo del saggio di Ciconte è significativo: Le reazioni del PCI e le connivenza della politica e della magistratura. Se il maggiore partito comunista occidentale vede morire due sue membri fra i più attivi nella lotta alla criminalità calabrese, espressione di una resistenza, pur nelle sue contraddizioni, ancora corale, lo stesso non si può dire per istituzioni, spesso colluse, e magistratura, a volte addirittura connivente. Molti esponenti della politica e delle istituzioni tendono a sminuire la portata degli omicidi depistando indagini e negando che i fatti siano espressione dei gruppi criminali. Ci sono magistrati che minimizzano il fenomeno ‘ndranghetista, e altri che istituiscono processi come quello di Locri, che anticipa le norme degli anni successivi portando a giudizio gli imputati non come responsabili di singoli delitti, ma come appartenenti a organizzazioni mafiose. Altri, infine, che hanno paura, sono incapaci, addirittura sono terrorizzati. Leggere per credere, allibiti, le pagine sulla procura di Paola che indaga sull’omicidio di Losardo. Una terra difficile la Calabria, dove le divisioni corrono non solo nella politica, nelle istituzioni e nella magistratura ma anche dentro la Chiesa, dove accanto al prete-padrone di Africo, don Stilo, c’è un sacerdote ben diverso come don Natale Bianchi. Per non dire della sottovalutazione generale del “caso Calabria” a livello nazionale. Oggi se ne vedono le conseguenze: la ‘ndrangheta è ovunque.