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“La luce è là” romanzo di Agata Bazzi

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Una villa, una famiglia, una città, la Storia.

Questi i grandi motivi narrativi del romanzo, pubblicato per Mondadori e uscito nel 2019, La luce è là, di Agata Bazzi, architetto palermitano al suo primo romanzo.

La villa è Villa Ahrens, residenza della famiglia omonima, grande baglio situato a fianco della Villa Adriana nel quadrante nord di Palermo, che fu una delle più belle e vivaci tra quelle che punteggiavano la piana dei Colli negli anni d’oro della città, a partire dalla fine dell’Ottocento. Una dimora costruita per abitare e ricevere, per crescere una numerosa famiglia, per alimentare con la cultura, la musica, il teatro, la ricca borghesia palermitana, una villa immersa in un giardino profumato di rose e di lillà, sulla cui facciata Albert (il capostipite) aveva voluto lo stemma rappresentante un’aquila recante nel petto uno scudo con la stella a sei punte (a memoria delle sue origini ebraiche) accompagnata dal motto in dialetto amburghese Likdör (La luce è là).

Dimora che durante il regime fascista venne requisita dal governo e oggi, dopo un restauro che le ha riconsegnato l’antico fascino, è la sede palermitana della Dia (Direzione investigativa antimafia). Con le leggi razziali, la famiglia Ahrens la abbandonò, per sparpagliarsi in mezza Europa e non solo.

La famiglia è quella di Albert e Johanna Ahrens, tedeschi ebrei che si trasferiscono dalla Germania a Palermo col preciso obiettivo di creare un tessuto industriale e agricolo moderno ed europeo e danno origine pure a una importante dinastia. Una vicenda per certi versi simile a quella ben nota dei Florio che avevano iniziato commerciando spezie, poi producendo vino, infine avevano accresciuto i loro affari con lo zolfo; come Ignazio Florio, Albert aveva capito che era necessario fondersi con la nobiltà locale, avere un ruolo da protagonista nel governo e che spesso «gli imprenditori sopperiscono allo Stato».

La città è la magnifica Palermo. Non una Palermo siciliana secondo gli stereotipi ben noti, ma una città perno del Mediterraneo e crocevia di scambi e di incontri commerciali e culturali. Una Palermo che per vocazione è ed è stata sempre un melting pot antropologico e intellettuale e che, nel romanzo, è protagonista di una grandiosa, intrecciata saga familiare e dove scorre la Storia.

Già la Storia di mezzo secolo, la stagione compresa tra la fine dell’Ottocento e gli anni ‘30 del Novecento, quando la follia del nazifascismo toccò il culmine in Italia col varo delle leggi razziali, in cui Palermo, città di corti e di governi, visse la sua prolifica e unica stagione industriale, e poi giunta fino agli anni Cinquanta.

Dalla Belle Époque al terremoto di Messina, alla Prima Guerra Mondiale, all’avvento del fascismo fino alle leggi razziali del 1938 che costringono Albert Ahrens a fare i conti con la propria identità ebraica, e dopo la ricostruzione del Dopoguerra, questo l’arco di tempo raccontato nel romanzo.

In quel tempo grandi famiglie, tutte arrivate da fuori, si stabilirono nel capoluogo siciliano e vi trovarono terreno fertile per svariate attività produttive, poi devastate o spinte verso il declino dalle bombe della Seconda Guerra mondiale. Dai Florio ai Ducrot, passando per la lunga cordata britannica capitanata dai Whitaker, gli Ingham e i Woodhouse, come la famiglia ebreo-tedesca, gli Ahrens. Dove Albert, arrivò spinto proprio dalle suggestioni letterarie di Goethe e impiantò una fiorente fabbrica di mobili, e da lì ampliò la sua attività in molti settori compreso quello della produzione di vini.

Tedesco di nascita ma italiano d’adozione, industriale e commerciante, fu uno dei massimi esponenti di quella nuova classe sociale che meglio rappresentò la Palermo “fin de siècle”.

A ricostruire il mondo che ha pulsato dentro questa dimora e che ha incrociato una congiuntura politica, una situazione economica e un clima culturale particolarissimi per Palermo, è  Agata Bazzi, architetto palermitano,  discendente della famiglia, che attingendo ai ricordi e al diario tenuto dal bisnonno Albert, ci narra  con uno stile raffinato dal ritmo serrato e alcuni passaggi lirici le vicende degli Ahrens che si intrecciano fra gioie e dolori agli eventi storici: i giovani Ahrens crescono in un clima di accoglienza e apertura verso gli abitanti della borgata, sotto la guida saggia di Johanna, figura centrale del romanzo, protagonista assoluta di tutto l’arco temporale rappresentato,  che si occupa con piglio fermo ma incline alla generosità del governo della casa, rimanendo per tutta la sua lunghissima vita un punto di riferimento così forte da tenere unita la famiglia, sia durante gli anni di prosperità e di successo, sia quando le tragedie private e gli eventi della Storia spezzeranno l’armonia e la serenità del nucleo familiare.

E’ attraverso la voce narrante di Marta, una delle sorelle Ahrens affetta da una lieve sordità che però non le impedisce di “ascoltare” e interpretare il mondo, che l’autrice ricostruisce gli avvenimenti che legano la sua famiglia alla Sicilia. Accanto al racconto in prima persona si innestano passaggi del diario di Albert che spiegano le ragioni di una scelta difficile e, apparentemente, incomprensibile – il trasferimento a Palermo – e poi la volontà di sposare una donna tedesca, la ricerca e il corteggiamento di Johanna, l’amore devoto verso di lei e la costruzione di una famiglia e di un impero solido perché fondato su principi eterni e sinceri.

La stessa Bazzi ha definito il romanzo: “È di fatto un libro sulla città, osservata in un periodo riguardo al quale, ancora oggi, non si scioglie il dubbio se quel suo creativo e transitorio sviluppo industriale sia stato determinato dall’arrivo di famiglie straniere con tanto di capitali da investire; oppure dal fatto che Palermo in quegli anni  fosse già industriale, al punto da calamitare quelle famiglie da diverse zone d’Europa”, lei che di  mestiere fa l’urbanista pubblico e che anni fa ricoprì la carica di assessore comunale.

In realtà, di Palermo la Bazzi ci rappresenta anche aspetti meno conosciuti. Per esempio ci dice che a fine Ottocento, il capoluogo siciliano fosse centro di intrighi e complotti, anche Mata Hari, la conturbante spia, pare sia arrivata fin qui, così come i Rothschild, il Kaiser Guglielmo II e tante altre personalità della politica e della cultura internazionale. Tutti approdati a Palermo per avviare complotti e stringere alleanze determinanti per la costruzione della storia d’Europa.

Il titolo del romanzo nasce dalla frase Likdörla Luce è là, iscritta sulla facciata della villa. A ispirare la scrittrice “è stato soprattutto il ritrovamento di un diario di famiglia, conservato dallo zio Gabì (al secolo Gabriele Morello), pieno di racconti vergati in tedesco e yiddish”. La saga familiare che ne è venuta fuori fotografa una Palermo operosa e prospera, ormai cancellata dal tempo e dalla mano dell’uomo e in cui fondamentale fu il ruolo delle figure femminili della famiglia Ahrens. Un piccolo mondo a trazione femminile, quindi, di donne di carattere e grande sensibilità nel cogliere le direzioni della società e nel governare, sull’esempio del padre, gli affari familiari, unite attorno a valori come coraggio, dignità, rigore e speranza; donne tenaci che hanno sfidato le consuetudini dell’epoca, rivoluzionato le idee, difeso i diritti dei deboli e combattuto le ingiustizie per diventare custodi della memoria e dei valori che hanno ispirato la famiglia.

Il loro non era un mondo chiuso ma aperto verso la popolazione e gli strati più poveri; per volere preciso di Johanna, molto attiva sul fronte della beneficienza, i cancelli della villa rimanevano aperti ogni giovedì per accogliere e sfamare la povera gente. Quando lei morì, a 105 anni, al suo funerale c’erano migliaia di persone, in larga parte del popolo.

Tutta la narrazione è divisa in due parti in netto contrasto fra loro: la prima parte si direbbe elegiaca, incantata, imbevuta di gioia, amore e progetti; la seconda carica di paure, di sconfitte e perdite, di coraggio e dissoluzione. Il dolore entra prepotentemente nella villa e nella famiglia e rimane lì, sopito e poi risvegliato da una serie di lutti e vicende tragiche.

“Il dolore è un fenomeno carsico. Quando emerge devasta, ma poi si inabissa e la vita sembra riprendere il suo andamento abituale. (….) Il dolore è un fenomeno incrementale”.

Usare il termine avvincente per definire questo romanzo ci sembra riduttivo. Questo racconto procede con una narrazione coinvolgente sul piano sentimentale, emozionale – toccanti le pagine dedicate alla descrizione della vita e della morte in trincea, come quelle dei bombardamenti di Palermo – intellettivo e conoscitivo. Ha il valore di un completo documento storico, dettagliato e ricco di particolari, ma, nello stesso tempo, dal retrogusto amaro della nostalgia e della speranza, sempre più flebile.

La Bazzi disegna un mondo con la precisione della sua professione, con una scrittura così nitida e lucida, così fotografica da proiettare davanti agli occhi del lettore limpide immagini popolate di personaggi concreti, tangibili nell’aspetto e nel carattere; un mondo fatto anche di strade, di campagne, di stazioni, di periferie e magnifici palazzi, di porti e navi, treni e corredi di nozze, mobili e tendaggi… un mondo che prende il lettore e lo ingoia, trascinandolo dentro la vita degli Ahrens e dentro la Storia.

C’è una piccola prefazione con la quale l’autrice spiega al lettore il perché di questo romanzo, una prefazione che arriva, stranamente, a racconto già cominciato. La Bazzi racconta che davanti alla facciata di Villa Ahrens, ora sede della DIA, si è sentita chiamata a farsi custode del tesoro di vite che la casa ha abbracciato e accolto e ha voluto rimettere insieme tutti i pezzi per non fare scomparire quella memoria. Ha guardato la facciata di quella casa che “ha racchiuso tanti mondi, tanti affetti, di lavoro e abbandono. Ma la luce è là e risorge sempre”.


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