Il cinema nasce muto, e muto rimane per più di tre decenni. Ma poi non è certo un caso che il primo lungometraggio sonoro in cui fosse possibile ascoltare la voce degli attori sincronizzata alle immagini, sia stato nel 1927 un film musicale della Warner Bros, Il Cantante di Jazz (The Jazz Singer) con Al Jonson, In Italia in cinema sonoro arriva tre anni più tardi, e c’è ancora in corso una disputa filologica se sia stato merito di Alessandro Blasetti con Resurrectio (1930) o di Gennaro Righelli con La canzone dell’amore.
Di fatto il cinema fin quasi dal suo primo apparire ebbe come complice, compagna di strada e di avventura, la musica, che un pianista sistemato sotto lo schermo nelle salette dei Caffè parigini, suonava dal vivo per accompagnare ad estro lo scorrere delle sequenze.
In ogni caso da quando esiste il “cinema parlato” l’incisione della musica occupa un ruolo insostituibile nella realizzazione di un film, e arriva proprio come ultima tappa nel processo creativo.
Nel corso delle riprese può accadere che il regista avverta il bisogno dell’accompagnamento musicale, e allora chieda al compositore di anticipargli un tema, sia pure ancora soltanto abbozzato sulla lettura della sceneggiatura o parlando con l’autore. Durante il girato è anche consuetudine che si utilizzino brani d’appoggio presi da qualsiasi repertorio, classico o leggero, che poi verranno sostituiti al momento della registrazione del vero commento musicale.
La musica viene ‘incisa’ in stabilimenti specializzati che all’occorrenza possono ospitare anche un’orchestra a pieni ruoli. Di solito il complesso orchestrale, almeno oggi che i costi sono altissimi, si presenta a ranghi ridotti e attualmente capita che le produzioni si rifugino nei paesi dell’Est Europeo dove le richieste economiche sono meno esose. Altrimenti si ricorre alla musica di sintesi, ottenuta con sofisticatissimi programmi digitali che offrono inesauribili possibilità; ma il risultato, al di fuori degli effetti, non è paragonabile alla musica eseguita dal vivo. In particolare i temi in chiave melodica che solitamente accompagnano i titoli di testa e di coda dei film, oltre ad alcuni snodi culminanti della narrazione, possiedono ben altra suggestione nella tradizione esecuzione orchestrale.
La scrittura musicale, l’orchestrazione, l’arrangiamento sono responsabilità del compositore e dei suoi aiuti, mentre la direzione d’orchestra viene affidata a un maestro che gode la fiducia dell’autore.
Nino Rota è stato per ventisette anni, fino alla scomparsa, il musicista di Fellini. Rappresentava la ‘sonorità’ stessa del suo cinema. Impossibile pensare ai suoi film separati dalle musiche di Rota: le ‘fanfare’ trascinanti di Lo sceicco bianco, le melodie malinconiche de I Vitelloni, la tromba e il violino ‘spaccacuore’ della Strada, la suggestione aurorale di Cabiria, la pulsante ondosità della Dolce Vita. E se è vero, come il compositore milanese ripeteva scherzando, che Fellini in ogni film avrebbe voluto “La marcia dei gladiatori” (Julius Fučík ‘Entrata dei gladiatori’ op. 68), bisogna decisamente riconoscere che la musica da lui scritta per I Clown ne era allo stesso tempo il coronamento e l’impareggiabile sublimazione.
Affermava Fellini:
«Fra tutte le fasi di lavorazione del film ce n’è una che è la più desiderata, un vero momento di festa: la creazione della colonna musicale, l’incisione, Nino Rota! Con Nino posso passare giornate intere, ad ascoltarlo al pianoforte nel tentativo di precisare un motivo, di chiarire una frase musicale in modo che coincida il più esattamente possibile con il sentimento, l’emozione che desidero esprimere in quella sequenza».
Alla “Forum” di Piazza Euclide, all’epoca lo stabilimento tecnologicamente più attrezzato, Fellini si sistemava alla consolle vicino al fonico, e io, nella fila subito dietro di lui, tendevo l’orecchio a tutte le sue osservazioni. Nella sala insonorizzata, al di là della vetrata che avevamo di fronte, i professori sedevano agli strumenti, e il Maestro Alberto Savina presiedeva alla direzione orchestrale; mentre Nino con una matita in mano continuava a volteggiare tra i leggii segnando rapide annotazioni sugli spartiti.
Le incisioni si susseguivano, si ripetevano, si precisavano; Rota a volte rientrava in cabina per ascoltare l’esecuzione dagli amplificatori, due enormi casse sospese al soffitto del box regia completamente foderato di legno lucido anecoico: il suono era terso e fermo, ogni nota, ogni strumento emetteva l’essenza della propria purezza.
Il rapporto tra regista e compositore appoggia oltre che sulla stima, anche su una profonda conoscenza reciproca, perché il commento musicale deve riuscire a tradurre in note ciò che il regista è in grado di esprimere soltanto a parole, cercando di approssimarsi il più possibile alla suggestione che confusamente si agita nel suo cuore, ma non possiede il linguaggio tecnico per esprimerla. Alla fine è il contatto mentale che deve trovare una miracolosa fusione. Ecco perché quando un autore cinematografico procedendo per progressivi avvicinamenti incontra il proprio compositore, la coppia finisce per diventare inscindibile.
Fellini non ne faceva mistero:
«Il collaboratore più prezioso di tutti, posso rispondere senza riflettere, era Nino Rota. Tra noi c’è stata subito un’intesa piena, totale, fin da Lo Sceicco Bianco, il primo film che facemmo insieme. La nostra intesa non ha avuto bisogno di rodaggio. Io mi ero deciso a fare il regista e Nino esisteva già come premessa perché continuassi a farlo. Aveva un’immaginazione geometrica, una visione musicale da sfere celesti, per cui non aveva bisogno di vedere le immagini dei miei film. Quando gli chiedevo quali motivi aveva in mente per commentare questa o quella sequenza avvertivo chiaramente che le immagini non lo riguardavano: il suo era un mondo interno, in cui la realtà aveva scarsa possibilità di accesso.»
Federico sosteneva addirittura che Nino quando veniva chiamato ad assistere alla proiezione della copia lavoro per cominciare a ideare la musica, dopo le prime sequenze quasi sempre si addormentava. Pertanto spesso non conosceva la trama del film, non ricordava i personaggi, le situazioni, le scene, i dialoghi. Ma non gli servivano; era entrato in contatto con lo spirito nascosto dell’opera, aveva assimilato ciò di cui aveva bisogno, e i temi musicali sarebbero sgorgati da soli con estrema aderenza alla storia. Di più, le sue melodie possedevano la prerogativa di ‘rivelare’ l’essenza profonda della trama anche all’autore stesso, il quale confessava di percepire le zone d’ombra di ciò che aveva girato soltanto dopo aver ascoltato la musica che Nino aveva inventato per lui. Rota esprimeva dunque l’inesprimibile.
Di rimando il musicista, quasi in una ineffabile antifona, confessava:
«A volte non comprendevo neppure la storia che Fellini aveva narrato, fino a quando non avevo composto la musica. Allora tutto mi appariva chiaro.»
Di rapporti analoghi, sebbene non così paranormali, si ritrovano altri esempi in Italia e all’estero: tra Ennio Morricone e Sergio Leone, tra Carlo Rustichelli e Pietro Germi, di Piero Piccioni con Francesco Rosi e Alberto Sordi, o Armando Trovajoli con Dino Risi, Ettore Scola, Luigi Magni. Altre accoppiate celebri sono state Sergej Prokofiev e Sergei Eisenstein, Bernard Herrmann e Alfred Hitchcock, Joe Hisaishi con Hayao Miyazaki, Hans Zimmer con Christopher Nolan, John Williams con Steven Spielberg e George Lucas.
E oggi nel cinema di casa nostra ricordiamo Nicola Piovani con Roberto Benigni, e ancora Ennio Morricone, fino a ieri, con Giuseppe Tornatore. E chissà quanti altri.
Nicola Piovani è il compositore che ha raccolto il testimone di Nino Rota, subentrando accanto a Fellini. Quando nel 1979 Rota scompare, Fellini che stava realizzando La Città delle donne, cercò un’intesa con Luis Bacalov, ma l’alchimia non funzionò. Nel successivo E la nave va, un film che aveva un impianto operistico, era necessario utilizzare un esperto di musica classica, e fu chiamato Gianfranco Plenizio, il quale assunse con entusiasmo l’incarico, con piena soddisfazione del regista. Piovani arrivò con Ginger e Fred, e fu quasi amore a prima vista. Musicò successivamente sia Intervista che La Voce della Luna, restituendo grazie a una venatura melodica e sognante una delicata rievocazione del suo illustre predecessore, senza peraltro rinunciare al proprio stile.
In una intervista che girai con lui nel 1985, alla Forum di Roma, quando il sodalizio con Federico era ancora agli inizi, Piovani aveva dichiarato:
«La musica di Nino Rota e Nino Rota come era, ciò che era e ciò che rappresentava, è la testimonianza di un maestro, un maestro in senso lato; uno dei pochi maestri dell’era a me contemporanea, degli anni che ho vissuto io; e che posso chiamare maestri intendendo coloro che hanno qualcosa da insegnare, non in senso tecnico stretto, ma in quel significato più ampio che riguarda il rapporto tra la vita e la musica, tra ciò che si fa e ciò che si vive. Rota, per quel minimo di rapporto personale che ho avuto con lui, ma soprattutto ho assorbito dal suo insegnamento pubblico, dalle interviste, dalla sua stessa attività musicale, ha insegnato qualcosa di rarissimo nei decenni in cui ha operato, e cioè la libertà mentale di cui deve disporre il compositore. Ha insegnato inoltre che non esistono barriere tra i generi; la sua libertà mentale lo portava a scrivere canzoni, oratori, sinfonie, musiche da film, da teatro, da balletto, senza alcuna distinzione. Quando gli domandavano come riuscisse a scrivere Il viaggio di Maria e poi a inventare La pappa con pomodoro… Ecco in questo lui era veramente grande. Possedeva qualità uniche, le qualità del genio, e non c’è altro da aggiungere.»
Piovani dunque quasi per istinto si era ritrovato nella galassia mentale di Nino Rota, e se non aveva tremato nell’accoglierne l’eredità, era forse proprio perché avvertiva che Fellini aveva riconosciuto in lui una promettente affinità. Si trattava in fondo di una investitura. Che il giovane compositore aveva accolto con umiltà e con trepidazione, mettendosi completamente al servizio del film e del regista. Fellini peraltro non rinuncerà mai del tutto a inserire negli ultimi tre film della sua carriera ancora temi rotiani già utilizzati in passato; erano citazioni affettuose, o carezze che i due artisti continuavano a scambiarsi da lontano. Rota aveva lasciato questa terra ma non del tutto, “l’amico magico” era soltanto volato via:
«Quell’omino che cercava di uscire da porte che non c’erano, e che poteva realmente uscire anche da una finestra, come una farfalla, avvolto com’era da un’atmosfera magica, irreale».
Per Federico il geniale compositore milanese era un essere semidivino che non avresti saputo a quale gerarchia angelica assegnare, se ai Serafini, ai Troni o ai Cherubini. Nino assicurava la protezione metafisica al regista, forse appariva ai suoi occhi anche lievemente irreale, sempre sul punto di svanire, di dissolversi, come un personaggio delle fiabe; a nessun altra persona di mia conoscenza Federico riservava una paragonabile dolcezza di affetto, di sospesa gioiosa tenerezza, di autentica dedizione. Adottava nei suoi confronti atteggiamenti addirittura materni; quando l’amico durante l’estate si fermava qualche volta a cena nella villa di Fregene, e poi accettava di restare a dormire, Fellini prima di coricarsi passava dalla sua stanza a rimboccargli le coperte, a dargli il bacio della buona notte. Quasi incredulo dell’immensa fortuna di ospitare sotto il suo tetto un prodigio vivente, anzi la portentosa materializzazione, sotto fattezze umane, di una facoltà psichica che in lui restava sommersa. Rota materializzava in sé l’essenza della musica, era il tramite capace di condensare in quel linguaggio incorporeo tutto ciò che non era esprimibile né con le parole né con le immagini. Era l’araldo delle armonie iperuraniche di cui discettavano Dante e San Tommaso. Le note che sapeva combinare con tanta sapienza per i film di Fellini, costituivano agli occhi del regista la riprova inconfutabile della sua natura ultraterrena. Le loro due menti erano in una sintonia così perfetta, che Fellini – lo ammetteva – provava a tratti l’impressione di essere stato egli stesso a concepire quei motivi:
«Era una vera gioia lavorare con lui. La sua creatività te la sentivi così vicina che ti comunicava una sorta di ebbrezza fino a darti la sensazione che la musica la stessi facendo tu.
Nino arrivava alla fine, quando lo stress per le riprese, il montaggio, il doppiaggio era al massimo, ma come arrivava lo stress spariva e tutto si trasformava in una festa, il film entrava in una zona lieta, serena, fantastica, in un’atmosfera dalla quale riceveva come nuova vita.»
Per tutto ciò c’è una precisa spiegazione. Nino Rota non ‘commenta’ ma ‘inventa’ musicalmente i film; come è stato per La Strada, Le notti di Cabiria, Il Bidone, La Dolce Vita.
La celebre marcetta di Otto e Mezzo che si sviluppa, si amplia, e tracima dilagando nel pieno orchestrale, riassume in quel crescendo trascinante l’inestricabile intreccio dei sentimenti di tutti i personaggi che si sono affollati fino a quel momento sullo schermo, davanti ai nostri occhi.
Le sospese cavatine di Giulietta degli Spiriti sembrano partorite dagli spettri in agguato. Satyricon emanava l’accordo tellurico, primordiale, scaturito da profondità ctonie.
Alla prima di Amarcord il pubblico usciva dalla sala già canticchiando la musica come fosse appena evaso dallo schermo, rimettendo piede a terra. Per Casanova i temi principali sembravano davvero sgorgare in simbiosi con le immagini da una sorgente misteriosa di cui Rota soltanto conosceva l’origine. Il commento musicale alludeva alle favolose scatole acustiche del Settecento, i carillon, da cui si sprigionavano arie stregate e languorose tipiche delle cadenze e delle armonie di quel secolo libertino. Ma nello stesso tempo racchiudeva nelle note anche la fluida vocalità dell’acqua, la trasparenza della laguna, le buie e torbide profondità dei fondali; una sonorità che Fellini desiderava “liquida” e che il compositore, al solito, aveva saputo tradurre con fedeltà assoluta e raffinatissimo talento. Per raggiungere il suo scopo era ricorso persino a uno strumento allora rarissimo, l’arpe de verre, un set di calici di cristallo che l’esecutore, convocato da Vienna, suonava sfiorandone con dita inumidite il bordo sottilissimo. Durante l’incisione realizzai un servizio per un popolare programma TV del tempo, Odeon, in cui Federico definiva così quella singolare vibrazione:
«Un suono che stenta a nascere, come ci mettesse una gran pena, come venisse da un altro mondo; così struggente da farvi venire la pelle d’oca.»
D’altro canto in tutto il film, dalla nenia infantile di Pin Penin nelle scene con la gigantessa, alla marcia militare da orda barbarica che scandisce la sequenza di Württemberg, si assiste a un virtuosismo di citazioni coltissime, che si trasformano in un amalgama sonoro mesmerizzante.
Né minor turbamento provoca il motivo scritto per la sequenza conclusiva del film, in cui sulla laguna ghiacciata di Venezia il Cavaliere di Seingalt (Donald Sutherland) muove lievi passi di danza tenendo teneramente tra le braccia la bambola meccanica. Una melodia che sembra intercettata in uno stato di sonnambulismo, di rapimento estatico; non si riesce a spiegare in altro modo quella ipnotica risonanza che sembra veramente riaffiorare dall’abisso.
In Prova d’orchestra, l’ultimo capolavoro, la musica era lo ‘spirito guida’. A dimostrazione che l’arte dispone a volte di messaggeri alati a cui affida le proprie imperscrutabili alchimie.