Molti hanno commentato e considerato l’intervento del tredicenne Brayden Harrington alla Convention Democratica negli Stati Uniti come un colpo di teatro, una favoletta buonista che vede protagonista un ragazzino adolescente affetto da balbuzie e il suo “benefattore”, Jo Biden, che da ex-balbuziente – capace di superare la sua disabilità – lo sta aiutando a fare lo stesso. Insomma una riedizione de “Il discorso del Re” in versione contemporanea con un candidato presidente al posto del logopedista e un bimbo al posto del Re d’Inghilterra.
Credo si tratti di una interpretazione assolutamente sbagliata e che nega il valore politico di questo evento (che pur la magia di una favola ce l’ha ma non può essere ridotto ad una favoletta).
L’intervento di Brayden segna l’ingresso del tema della disabilità nell’agenda politica e mediatica americana. Negli ultimi vent’anni l’unica disabilità che ha avuto spazio nell’infosfera come nel dibattito dei partiti statunitensi è stata quella partorita dalle guerre in Iraq e in Afghanistan. Porto un grande rispetto per chi ha perso gambe, braccia, parti del proprio volto, a volte la vista, altre la parola per via di guerre sbagliate; non vorrei quindi essere frainteso.
Credo però che questo tipo di disabilità – quella dei veterani – abbia trovato spazio mediatico e politico non per una presa di coscienza generale sul tema ma perchè a) in qualche modo rappresentava il prezzo pagato per una scelta eroica al servizio del proprio Paese b) perchè, in quanto tale, è stata funzionale a giustificare quei conflitti evitando ogni forma di auto-critica da parte dei politici.
Insomma è una disabilità in qualche modo onorevole e “guadagnata” con il sacrificio, quindi diversa dal solito.
Con Brayden è invece una disabilità “subita” non “scelta” ad entrare sul palcoscenico, una disabilità che non ha nulla di eroico ma che anzi diventa terreno di bullismo, insulti, sbeffeggiamenti, parodie (ricordiamo come della balbuzie Franco e Ciccio fecero strumento di grasse risate grazie al loro talento).
Credo che sia arrivata l’ora che il nostro Paese, l’Italia, ma anche la professione giornalistica facciano i conti con la disabilità, riconoscendogli quel diritto di cittadinanza sinora negato.
A guardare agli ultimi due decenni, la disabilità che ha ricevuto spazio mediatico è stata quella di personaggi come Alex Zanardi capace di diventare un modello per tutti – disabili e non – con la sua tenacia e la sua capacità di opporsi al destino (contro il quale, per inciso, speriamo vinca anche questa volta).
Ma tutto sommato, applaudire un atleta – un grande atleta – non costa molto perchè il suo successo non rischia di impattare sulle nostre “piccole” vite. Un’atleta non ce lo ritroviamo rivale al lavoro oppure a scuola, vive nell’empireo e nell’immaginario collettivo non nel nostro mondo terreno.
Al disabile viene assegnato un ruolo sociale che è quello della vittima che, al massimo, gli fa meritare la pensione e lo sconto iva sull’auto, ovviamente quando non viene scaraventato – perchè tutte di tutte le erbe si fa un fascio – nella categoria dei truffatorii; la categoria contro la quale si “ribella” chi parcheggia nei posti disabili, perchè tanto quelli col contrassegno “son tutti furbi”.
L’unica immagine dei disabili alternativa, a quella degli atleti paralimpici, rinvenibile nel panorama mediatico è quella dei bimbi affetti da gravi malattie rare, protagonisti dello spot – crudo quanto umano – prodotto da Telethon per raccogliere fondi per la ricerca. Si tratta però della proiezione sull’opinione pubblica dell’immagine classica del disabile come soggetto da assistere non di qualcuno che vive e compete alla pari con noi.
La rimozione della disabilità si fa poi massima quando quest’ultima è acquisita per motivi lavorativi. Come consideriamo normali le morti sul lavoro (paradossalmente chiamate “morti bianche” quasi fossero innocenti e frutto di fatalità) tanto ignoriamo gli infortuni che rendono disabili i lavorati, “normalizzando” anche loro.
Cosa accade ad un disabile quando riesce a farcela? Quando riesce a scalare le vette scolastiche e quelle lavorative? La risposta non può che essere generica, con il rischio di negare tante eccezioni, lo premetto.
Accade che non gli viene riconosciuto lo sforzo extra che deve affrontare ma, al contrario, la sua disabilità gli viene ributtata contro, spesso da chi ambiva allo stesso voto, allo stesso ruolo, alla stessa promozione, allo stesso successo.
“Ce l’ha fatta solo perchè ha fatto pena al capo/al prof”. “Io davvero non capisco come possano affidargli quell’incarico, se sbaglia a pagare poi siamo noi”. “E’ un imbroglione/a, figurati se uno/a così ce la poteva mai fare da solo/a”. “Quel progetto non è suo, se l’è fatto realizzare da un altro…quello/a non riesce a reggere nemmeno la matita in mano”. “Ma dove vuole andare?! Non sta nemmeno in piedi e vuole fare il capo, figurati non ci riuscirà mai”.
Queste stesse frasi potrebbero essere applicate, con qualche variazione, a due categorie – le donne e i gay – che però negli ultimi decenni sono riuscite a diventare protagoniste del dibattito sulla diversità, conquistando (chapeau) non solo spazio mediatico e politico ma anche una coscienza sociale e una dignità a lungo negata dal corpo dell’opinione pubblica.
Con la disabilità non è accaduto lo stesso un po’ per distrazione della nostra malandata politica (potrei sbagliarmi ma gli ultimi disabili in Parlamento credo siano stati Antonio Guidi e Franco Piro, per inciso, di cui non sono parente), un po’ per l’incapacità delle associazioni dei disabili di unirsi, di non frammentarsi per “patologia” e di non limitarsi a dare assistenza nelle compilazione delle pratiche burocratiche.
E’ accaduto anche perchè il disabile – un po’ come la donna con la maternità – sa bene che la sua differenza potrà essere usata contro di lui/lei quindi fa di tutto per evitare che il tema possa essere sollevato, lo nega anche a se stesso/a, quando ha una banale influenza arriva persino ad evitare di chiedere malattiaper evitare squallide speculazioni sul suo conto.
Perchè scrivo di tutto questo guardando al mondo dell’informazione quando si tratta di un problema complessivo della società italiana? Perchè credo che sia arrivato il momento per i giornalisti di guidare una piccola ma significativa rivoluzione. E’ ora di dare alla disabilità quello spazio che manca nel mondo mediatico, a riconoscergli quella dignità di tema che la politica nega – limitandosi all’inclinazione delle rampe o alle piastrelle corrugate sui marciapiedi – e ad avviare una presa di coscienza generale.
Non si tratta solo di aprire una riflessione e di creare appositi strumenti deontologici e non ma anche di dare visibilità alla disabilità. Da quanti anni, per dirne una, non vedete un disabile in un quiz tv o in un programma di ballo? E in questo la Rai dovrebbe impegnarsi per fare la differenza perchè, grazie al canone, che lo sottrae dalle logiche dominanti (quelle di mercato), può farlo e perchè questo sarebbe un vero servizio al pubblico e alla società.
La disabilità non può più essere banalizzata nell’iconografia della sedia a rotelle che contrassegna una rampa, un parcheggio o un bagno. E’ ora di aprire gli occhi e raccontarla diversamente, nella sua interezza, nella sua complessità per svegliare le coscienze e rendere l’Italia un Paese più civile.