La manipolazione non è un’arte semplice. L’opera di condizionamento dell’opinione pubblica attraverso l’informazione – pilotata – non nasce nell’epoca dei social. I nuovi media hanno semplicemente ereditato una tradizione antica, nata e cresciuta in ambito soprattutto militare.
Il punto di partenza è il ribaltamento della massima di Clausewitz, «La politica non è che la continuazione della guerra con altri mezzi».
Questa inversione dei termini è la base dell’ideologia della sicurezza nazionale, vero e proprio leit-motiv della geopolitica dal dopoguerra in poi. Ideologia ereditata dal nazismo, coltivata dall’atlantismo (attraverso la scuola militare Usa e, in America latina, la scuola militare di Brasilia), divenuta la base delle politiche nazionali in Occidente. La manipolazione dell’informazione rientra pienamente nelle tattiche di guerra ed è stata una delle principali azioni svolta dagli stati in nome della sicurezza nazionale, ovvero, della «politica come proseguimento della guerra». Un esempio storico non ancora fino in fondo studiato – ma estremamente rilevante soprattutto per l’Italia – è l’esperienza dell’Aginter Presse, l’agenzia di informazione finanziata dai servizi portoghesi all’epoca della dittatura militare e composta da ex ufficiali francesi, tutti appartenenti dall’organizzazione di estrema destra OAS. Attraverso la loro esperienza le tattiche di «psyops» – ovvero di manipolazione delle informazioni – sviluppate dalla Francia soprattutto durante la guerra in Indocina l’Aginter Press – collegata con ambienti italiani della destra eversiva, da Avanguardia nazionale a Ordine nuovo – accompagnarono l’epoca della strategia della tensione.
La psicologia della manipolazione
Nel dossier del parlamento francese dedicato alla disinformazione (Parigi, agosto 2018) viene citato un principio chiave, da tenere ben presente:«La propagande moderne repose sur les analyses scientifiques de la psychologie et de la sociologie. C’est à partir de la connaissance de l’être humain, de ses tendances, de ses désirs, de ses besoins, de ses mécanismes psychiques, de ses automatismes, et aussi bien de la psychologie sociale que de la psychologie des profondeurs, que la propagande organise peu à peu ses techniques»
Sono due gli elementi cardine utilizzati nelle guerra di manipolazione dell’opinione pubblica nelle campagne social della destra italiana: la paura dell’alieno (ovvero di tutto ciò che è estraneo alla propria cultura) e il timore per il futuro. Tutti i regimi totalitari del ‘900 si sono basati sull’individuazione dello straniero come nemico interno. Per Hitler e il nazismo erano gli ebrei. Dal dopoguerra il nemico interno – in ambito occidentale – è divenuto il comunista, ritenuto naturalmente alleato con il blocco sovietico. Dagli anni ‘90 lentamente il nemico, l’alieno, è divenuto lo straniero, non solo in quanto portatore di culture altre, ma molto spesso come potenziale criminale. In altri contesti – come l’America Latina – il nemico è il povero, il diseredato, chi è costretto ai margini, come i «meninos de rua» brasiliani, obiettivo delle politiche di sicurezza nazionale fin dall’epoca della presidenza di Collor de Melo.
La costruzione dell’immagine dello straniero come nemico totale – il concetto di alieno – ha caratterizzato la propaganda e la manipolazione dell’opinione pubblica in questi ultimi anni, con un’impennata decisa negli ultimi dieci, quindici anni. Ci sono città dove già anni fa le campagne elettorali si vincevano o si perdevano su questo fronte. Gianni Alemanno è diventato sindaco di Roma anche grazie alla spinta emotiva di un episodio di cronaca nera, lo stupro e l’omicidio della 47enne Giovanna Reggiani da parte di un uomo di nazionalità rumena, proveniente da un campo Rom della capitale. Ovvero tutti gli ingredienti giusti per la mostrificazione dello straniero.
Venendo all’epoca recente, i social sono divenuti lo strumento principale per l’amplificazione degli episodi di cronaca che coinvolgono i migranti. Un particolare – l’episodio di cronaca – decontestualizzato che diventa generale. Per circa due anni, ad esempio, l’account twitter @ImJamesTheBond (ora rimosso) – collegato con una vasta area social della destra italiana – ha pubblicato immagini, video, testi che raffiguravano i migranti – soprattutto di religione islamica – come macchiette o come persone pericolose. Per induzione tutti i migranti erano mostri, deformi, non umani. La casa editrice di estrema destra Ferrogallico ha pubblicato lo scorso anno – in collaborazione con il quotidiano la Verità – il fumetto Adam, che riesumava la storia del 2013 di Kabobo, il ganese autore di un’aggressione mortale con un piccone contro tre passanti a Milano. Kabobo era giunto a Lampedusa fuggendo dalla guerra, dopo aver visto il fratello trucidato; secondo la perizia psichiatrica era evidentemente affetto da gravi turbe. La pubblicazione – che pone l’accento su una presunta ‘diversità’ culturale inconciliabile del mondo africano – punta dritto all’obiettivo: mostrificare il migrante, prodotto di riti tribali spaventosi. Un nemico dietro la porta di casa, ogni sbarco potrebbe portare nelle nostre strade un nuovo Kabobo.
La paura è la chiave. Per l’ideologia della sicurezza nazionale – elemento costitutivo della destra, da quella in doppio petto fino alle aree eversive – ne deriva la conseguenza del rafforzamento delle barriere, dei confini, intesi come veri e propri totem. «Porti chiusi», «blocco navale», sono concetti geopolitici di stampo tipicamente militare che diventano accettabili in tempo di pace. La politica come proseguimento dell’arte della guerra, come abbiamo visto. E in fondo questo è il vero obiettivo.
Se l’uomo mangia il cane
Riallacciando i fili, ripartiamo dall’influencer Francesca Totolo, che aveva esordito sul blogger di Luca Donadel, come raccontato nella prima parte di questa inchiesta. A metà agosto, insieme a due giornalisti, Chiara Giannini (Il Giornale) e Salvatore Dama (Libero) pubblica il racconto di una abitante di Lampedusa, Rosy Matina: «I migranti hanno mangiato i miei 4 cani». Giocando con i concetti e la basi della comunicazione viene in mente il principio del giornalismo: una notizia non è un cane che morde un uomo, ma un uomo che morde un cane. Ha, dunque, tutte le caratteristiche che possono rendere quel racconto virale. Immediatamente rilanciata dai principali esponenti della destra italiana, quell’immagine dei poveri cani «arrostiti» da un orda di migranti si inserisce nel filone disumanizzante, esattamente come i racconti su Kabobo del fumetto Adam. Non è importante, in questo caso, verificare la veridicità della notizia; è però bene evidenziare che il racconto di Rosy Matina non è supportato da nessun verifica indipendente. Nella sua proprietà – scriverà un veterinario dopo un sopralluogo – erano presenti alcune ossa canine, che risalivano ad alcuni anni fa e Matina non aveva nessuna documentazione sui quattro animali (libretto sanitario e registrazione obbligatoria).
Esiste il vecchio adagio «Vicentini magna gatti», nato probabilmente nel 1500 quando Padova era attaccata dalle truppe della Lega di Cambrai; tra gli aggressori vi erano, per l’appunto, gli abitanti di Vicenza. Indicarli come mangiatori di gatti era un modo per denigrare e disumanizzare, a prescindere dalla veridicità o meno dell’affermazione. Non è importante, in fondo, la notizia, ma la sua proiezione sull’opinione pubblica. Una manipolazione funziona se è basata su paure esistenti, ataviche, irrazionali. Temere che un ganese ti possa picconare mentre cammini in strada o che un migrante mangi il tuo cane, sono immagini che stimolano paure secolari. I vicentini invasori nel 1500, i migranti tunisini a Lampedusa oggi. Il meccanismo è lo stesso.
Storia di una influencer
Quando Francesca Totolo pubblica la storia dei cani di Lampedusa ha un profilo twitter con numeri di un certo rilievo: 27 mila follower, 58 mila tweet pubblicati. La sua attività è rivolta sostanzialmente ai social e alla casa editrice della famiglia Polacchi – riconducibile a Casapound – Altaforte (Sca 2080 srl). E’ autrice di due saggi, Inferno spa, sulle migrazioni e Coronavirus, istant book sulla pandemia.
La sua è stata una carriera decisamente folgorante. Ricostruirla è però utile per comprendere l’affinità tra le campagne social della destra e alcuni ambienti istituzionali, strettamente legati al mondo dell’ideologia della sicurezza nazionale.
Fino al 29 marzo 2017 Totolo era un nome assolutamente sconosciuto nel panorama editoriale italiano. Studi incompiuti alla Bocconi, nata e cresciuta nella provincia Verbano-Cusio-Ossola, fino a questa data era semplicemente una delle tante signore anonime delle valli che si affacciano sul lato piemontese del Lago Maggiore. Nessuna militanza politica nota – anche se quel territorio è oggi un vero e proprio laboratorio politico, dove pezzi della Lega, di Fratelli d’Italia si incrociano con Casapound ed esponenti della destra più estrema – nessuna pubblicazione, neanche nella stampa locale. Lavori più o meno precari. Un profilo Facebook con pochissimi post pubblici, qualche foto di serate con amiche e nulla più; un profilo Twitter aperto nel 2015 vuoto, senza un solo post. Insomma, una tranquilla vita di provincia, ben lontana dai riflettori della propaganda.
Quel 29 marzo del 2017 Francesca Totolo ha un curioso esordio. Contatta via messenger la rappresentante in Italia della Ong Jugend Rettet, organizzazione tedesca che utilizzava la nave Iuventa chiedendo informazioni: «Mi sto specializzando alla Bocconi in imprese senza scopo di lucro e la mia tesi parla di Ong del Mediterraneo (quanta voglia di imbarcarmi)», è l’esordio. Poi la richiesta: «Il mio relatore chiede dati economici, bilanci, atto costitutivo e una lista dei principali finanziatori». La rappresentante della Ong inizia ad avere qualche dubbio sulle reali intenzioni della «specializzanda»; contatta la Bocconi e il professore citato da Francesca Totolo assicura di non conoscerla. A quel punto la JR decide di presentare una denuncia-querela alla Polizia postale.
Ma quell’Ong era decisamente importante per l’influencer.
(2/segue)