La decisione del premier Conte di risolvere motu proprio la questione del negato accesso alla documentazione che è stata a presupposto dei provvedimenti governativi per la gestione dell’emergenza Covid19 – mettendoli a disposizione della Fondazione Einaudi che li aveva chiesti – porta alla memoria un quasi analogo precedente di un altro, lontano, presidente del consiglio dei ministri, il generale Alfonso Lamarmora. Il raffronto dei due casi potrebbe essere gustoso.
Vediamo intanto la vicenda di questi giorni. Il decreto del Presidente del Consiglio dei Ministri che dispone le prime, eccezionali, misure cita in premessa a giustificazione dei provvedimenti che si vanno a prendere delle analisi scientifiche che non sono però rese pubbliche (di qui ovviamente i dubbi: sia sulle basi scientifiche dei provvedimenti, sia sulla congruità dei provvedimenti ad esse). La Fondazione Einaudi presenta regolare istanza di accesso per ottenere tali rapporti ma essi vengono negati dall’”ufficio”. La Fondazione fa ricorso al TAR che emette, in tempi rapidi, una splendida sentenza che riconosce il diritto all’accesso, … ma l’”ufficio” si appella al Consiglio di Stato, il quale dovrebbe andare a sentenza il prossimo mese di settembre ma intanto sospende l’efficacia della sentenza del TAR evidenziando la seguente questione non del tutto di lana caprina: quei documenti sono preliminari alla redazione di un testo normativo generale e dunque sono di per sé sottratti al diritto di accesso? oppure sono il presupposto concreto di una ordinanza contingibile ed urgente e per questo motivo certamente da rendere accessibili? Ecco allora che il Presidente del Consiglio riconosce nei fatti la sussistenza del diritto all’accesso e mette i materiali a disposizione del richiedente e questi li rende pubblici. Possiamo osservare che questa mossa il premier si leva di dosso imbarazzanti impicci e compie pure un passo che certamente gli fa onore.
E veniamo ora al lontano predecessore di Conte. Correva l’anno 1866 e il presidente del consiglio dei ministri di allora, Alfonso Ferrero della Marmora, stringe un’alleanza segreta con la Prussia, che si rileverà poi molto utile per l’acquisizione del Veneto e di Mantova. Allo scoppio della guerra (siamo alla terza d’indipendenza) Lamarmora, che è generale (aveva condotto la spedizione in Crimea), si dimette dal governo e passa a fare il comandante di stato maggiore ma non darà gran prova in questo ruolo (Custoza non è esattamente una sconfitta, ma non è certo una vittoria, mentre è certamente una sconfitta lo scontro navale di Lissa). Passano gli anni e i governi e le polemiche sulla condotta diplomatica e militare della campagna del 66 non mancano. Il nostro pubblica allora (1873) il volume Un po’ più di luce sugli eventi politici e militari del 1866. Si tratta una ‘operazione trasparenza’ ante litteram perché rende noti documenti diplomatici riservati tant’è che se ne lamentano sia la Prussia sia il ministro degli esteri di quel tempo e dunque le polemiche, non che cessare, aumentano ed ecco che di lì a poco il governo propone una nuova norma nel Codice Penale, l’art. 196, per sanzionare i pubblici ufficiali (e gli ex pubblici ufficiali !) che divulghino atti non destinati alla pubblicità o anche potenzialmente produttivi di pericoli (di guerra, di rappresaglie, turbamento delle relazioni internazionali…).
Ecco allora che il nostro generale, ormai a riposo, se ne esce (siamo nel 1877) con un ponderoso volume “I segreti di stato nel governo costituzionale”, 330 pagine volte a demolire le dieci righe dell’articolo in questione. Colpiscono oggi innanzitutto i toni, … diciamo un po’ elevati rispetto alla narrazioni odierne della politica: la preoccupazione è la “dignità nazionale” e che “la giustizia sarebbe calpestata” ed anche il rispetto, da lui uomo della Destra, per lo Statuto “largito dal magnanimo Carlo Alberto” nei tumulti del 1848 e però corroborato dall’adesione popolare dei successivi plebisciti con il quali dal Regno di Sardegna si era passati a “questa nostra bella Italia, una e indivisibile”. L’assunto del suo ragionamento è che i Ministri sono responsabili verso la Nazione, rappresentata dalla Camera dei deputati, e che dunque dovendo essi rispondere al parlamento del loro operato, debbano poter difendersi avvalendosi anche della opportuna documentazione. E poiché allora la conservazione dei documenti era soggetta, nei ministeri e negli uffici pubblici, ad una certa àlea (forse anche oggi?), si chiedeva “è ammissibile che un Ministro il quale ha dovuto assumere delle gravi e complicate responsabilità, abbia da trovarsi spoglio di qualsiasi documento atto a giustificare il suo operato?” E dunque il pratico piemontese suggeriva che i ministri “dovrebbero lasciare ai rispettivi dicasteri tutti gli originali, ma aver facoltà di portare con loro le copie necessarie a giustificare il loro operato” e, di più, scriveva: “il pubblico interesse […] richiede che nessun documento, senza eccezione, possa essere sottratto alla Nazione, e che questa ne riceva anzi comunicazione colla stampa il più presto possibile”… era proprio quello che lui aveva fatto dando alle stampe il suo libro Un po’ più di luce! Lamarmora citava pure un articolo de l’Opinione (dell’ottobre 1875) sul tema della pubblicità (‘trasparenza’ la chiameremmo oggi) originato da un altro clamoroso fatto concreto: “Quando si giudica dell’onore, della libertà, della vita dei cittadini, non meno che allorquando si discutono gli interessi vitali del paese, è il paese stesso che deve conoscere tutti i particolari della lotta, e farsene un giusto criterio. Questo è lo scopo della pubblicità, fondamento di tutte le libertà civili e politiche.”. Non pare sia stata diversa la questione affrontata dal premier Conte, al quale potrebbe esser di soddisfazione sapere che anche un altro personaggio di calibro come il senatore Jacini era intervenuto con decisione contro l’art. 192 (con un articolo su una rivista berlinese nell’aprile 1872).
Ma forse è bene chiuderla qui, trascrivendo semplicemente l’auspicio che si faceva – e ci faceva – il Lamarmora nel chiudere la sua trattazione: “Però mi conforta il senno e la moralità, ond’io faccio voti perché gli Italiani, non disperando della efficacia delle istituzioni, mandino al Parlamento uomini degni di trattare la cosa pubblica.” Ops, per la verità, Giuseppe Conte non è stato mandato (eletto) al Parlamento, ma comunque, qui se l’è cavata bene! E poi vale senz’altro quel che scriveva allora il generale: “dietro di noi abbiamo l’abisso”, “poiché non è già il caso di fantasticare nuove forme di governo, disperando del regime costituzionale, perché funziona male, e potrebbe andar peggio, mentre il rimedio si trova nello stesso regime.” e poi, ancora, aggiungendo una prospettiva speranzosa che tocca però a noi concretizzare: “ben poco ci vuole a rendere questa nostra stupenda Italia una delle più prospere e felici Nazioni che abbia mai esistito”. Auguri!