Compie cent’anni il partigiano Giorgio Bocca. Non è più fra noi ma è come se lo fosse, anche se la sua assenza si fa sentire eccome, specie in una fase così drammatica, senza idee, spunti di riflessione e punti di riferimento.
Di Bocca ci manca la passione civile, il suo coraggio nel dire sempre e comunque ciò che pensava, la sua dedizione al lavoro, la sua scrittura finissima, la sua capacità di essere corrosivo, irriverente, aspro, mai compiacente nei confronti di nessun potere e anche la sua forza d’animo nell’assumersi le proprie responsabilità e nel riconoscere i propri errori.
Giorgio Bocca ci manca, anche se la sua grandezza rimane nelle sue opere, nella grande eredità che ci ha lasciato, nel suo giornalismo immortale, nei suoi saggi che costituiscono tuttora un punto di riferimento per le giovani generazioni e nell’umiltà con la quale affrontava ogni sfida.
Bocca è stato, infatti, soprattutto un innovatore, un rivoluzionario della parola ma, al tempo stesso, anche un significativo uomo d’azione.
A vent’anni fu protagonista della Resistenza più o meno negli stessi luoghi di Fenoglio, in una Val d’Ossola squassata dalla barbarie ma sempre colma di dignità e rispetto per il prossimo. Disse no a chi gli proponeva incarichi politici: preferiva raccontare, scoprire, viaggiare, girare il mondo e, soprattutto, denunciare. Fu lui, non a caso, a descrivere meglio di chiunque altro, per giunta sul Giorno, il giornale dell’ENI fortemente voluto da Mattei, le distorsioni del cosiddetto “miracolo economico”. Scrisse in quel di Vigevano: “Fare soldi per fare soldi per fare soldi: se esistono altre prospettive, chiedo scusa, non le ho viste”. Denunciava, in quell’occasione, l’assenza di librerie, lo spettro del consumismo, l’eccesso, la deriva che avrebbe condotto, molti anni dopo, al liberismo sfrenato: aveva capito tutto, prima e meglio di altri, e non ebbe remore a scriverlo.
Non a caso, fu a lui che si rivolse un disperato generale Dalla Chiesa per denunciare la solitudine e i rischi connessi al suo trasferimento in Sicilia, tre settimane prima di essere assassinato insieme alla giovane moglie Emanuela Setti Carraro.
Il merito di Bocca è stato, dunque, quello di esserci sempre, non arrendersi mai, testimoniare, battersi, sbagliare, cadere, rialzarsi, scrivere, scrivere e ancora scrivere, fino alla fine, quando proprio non ce la faceva più e la delusione mista a malinconia aveva avuto il sopravvento.
Gli metteva tristezza l’assenza della politica, il suo degrado, la pochezza di troppi politicanti, di troppi mediocri, di troppi figli della grascia che avevano dissipato l’eredità dei ventenni della sua generazione e tradito il Paese, facendolo sprofondare in un abisso di ignoranza e crudeltà senza precedenti.
Giorgio Bocca se n’è andato a novantuno anni, il 25 dicembre 2011, senza rinunciare a dire la sua neanche negli ultimi giorni.
Si definiva, nella sua rubrica sull’Espresso, un anti-italiano ma non lo era affatto e non era neanche un provinciale, nonostante il titolo di uno dei suoi libri più belli. Era solo un figlio dell’Italia migliore: quella che per decenni abbiamo deriso e da qualche anno abbiamo proprio accantonato.
P.S. Dedico quest’articolo alla memoria di Angelo Ratti, un anti-fascista che conobbe l’abisso di Mauthausen, scomparso nei giorni scorsi all’età di novantaquattro anni. Un altro testimone del tempo che, purtroppo, ci ha lasciato.
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