Enzo Biagi, l’umanità della mia gente 

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“Sono contento di essere italiano: non per Fermi o per Marconi ma per l’umanità della mia gente che si rivela quando le cose vanno male. Noi siamo un grande popolo nei momenti difficili”. In questa frase, pronunciata una sera nel salotto televisivo di Fabio Fazio, è racchiuso il senso della vita del partigiano Biagi, di cui il 9 agosto ricorre il centenario della nascita.
Ne abbiamo scritto tante volte, siamo nati anche per merito suo e di una battaglia comune: contro l’editto bulgaro, contro censure e bavagli e contro l’arroganza prepotente e disumana di una destra che aveva sconvolto gli equilibri della RAI, di fatto mettendo a repentaglio il valore imprescindibile del servizio pubblico. Siamo nati nel 2002 e con Enzo e la sua famiglia ci siamo tenuti compagnia: prima e dopo.
Ho confidato una volta a sua figlia Bice di essere dispiaciuto ma non troppo per la sua scomparsa: il dolore umano è ovvio ed è immenso, ci mancherebbe altro, ma dall’altra parte è sorto in me il pensiero umanitario che, quanto meno, si è risparmiato, dopo tanti lutti e tanti dolori, soprattutto familiari, almeno il dramma di vedere il declino del Paese che amava e il collasso della professione cui aveva dedicato l’intera vita.
Eppure Biagi c’è, lo sento qui fra noi. Rivive nelle battaglie di ogni giorno, nelle nostre lotte contro il precariato e lo sfruttamento, nel nostro sguardo costantemente rivolto al mondo e alle sue storture, nel nostro incessante sforzo di far luce sulle zone d’ombra, di coltivare la memoria, di conservare il ricordo, di sconfiggere l’oblio nel quale prosperano tutte le pulsioni autoritarie.
Enzo Biagi ci ha detto addio fisicamente il 6 novembre 2007 ma il suo lavoro, i suoi scritti, la sua televisione, le sue grandi interviste e lo spirito con cui ha affrontato ogni fase della vita sono ancora qui e vi rimarranno per sempre.
Conserveremo quell’idea nobile e romantica del cronista di paese che va alla scperta del mondo e, in fondo, per sua stessa ammissione, comprende di non essere mai andato via dal natio borgo di Pianaccio.
Conserveremo le immagini del minuscolo cimitero in cui è sepolto. Conserveremo il suo essere stato, ogni giorno, cittadino e partigiano, prim’ancora che giornalista.
Conserveremo la sua lezione di dignità, il suo aver mantenuto sempre la schiena dritta e la testa alta e il suo aver rivendicato i suoi ideali anche quando sapeva che gli sarebbero costati il posto.
Biagi è stato un gigante perché ha sempre resistito: ai nazi-fascisti, ai fondamentalisti del Patto Atlantico, al governo Tambroni, agli eccessi di ego di Preti e Craxi, al berlusconismo in tutte le sue forme  e anche alle mode, ai conformismi, alle iporisie, all’antico vizio italico di saltare sul carro del vinitore e alle conversioni sulla via di Damasco che tante carriere di mediocri e vassalli hanno agevolato.
Enzo Biagi è stato un giornalista-giornalista fino all’ultimo giorno. È caduto, si è rialzato e, infine, ha vinto, superando persino lo strazio per la perdita dell’amata moglie Lucia e, soprattutto, della figlia Anna, scomparsa nel 2003 a soli quarantasette anni.
Nonostante tutto, Enzo ha continuato a scrivere e persino a immaginare cosa avrebbe potuto realizzare per la RAI se non fosse stato cacciato con l’accusa di aver fatto un “uso criminoso della TV pubblica pagata coi soldi di tutti”. È sopravvissuto anche a questo diluvio, dopo aver assistito e tante volte narrato quelli del Novecento. E, grazie al costante impegno dell’amico Loris Mazzetti, ha continuato a vivere e a vincere la sua battaglia anche negli anni successivi, attraverso la riproposizione dei suoi programmi più significativi e tuttora attuali.
Come disse una volta Federico Fellini, quando proprio l’amico Enzo gli chiese cosa fosse per lui la vita: “Innamorarsi ancora una volta”. Cento di questi anni, partigiano Biagi!
P.S. Dedico quest’articolo alle vittime delle due atomiche che settantacinque anni fa sconvolsero Hiroshima e Nagasaki, ricordando che Biagi firmò il Manifesto dei Partigiani della Pace di Stoccolma contro la Guerra fredda e la proliferazione delle armi nucleari (di cui peraltro ricorre il settantesimo anniversario), e alle vittime della tragedia di Beirut, con l’auspicio che almeno non sia stata dolosa.

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