Da Beirut a Budapest, passando per la Bielorussia del dittatore Lukashenko e gli Stati Uniti di un Trump sempre più sull’orlo di una crisi di nervi, il mondo sta vivendo una stagione che Marco Damilano ha saggiamente definito, sull’Espresso in edicola questa settimana, “La grande incertezza”. La tesi di Damilano riguarda soprattutto Trump, secondo lui disposto a tutto pur di contrastare l’avanzata di Biden, a quanto pare rafforzata dalla scelta di Kamala Harris come vice ma soprattutto dai troppi errori che il magnate newyorkese ha compiuto nella gestione della pandemia.
Non sappiamo come andrà a finire e tralasciamo, ovviamente, le considerazioni del direttore in merito alla politica italiana, per quanto prima o poi questo discorso andrà affrontato con dovizia di particolari, essendo il nostro Paese ormai allo sbando totale.
Tornando alla politica estera, non c’è dubbio che la “democrazia autoritaria”, definizione azzeccata di Veltroni, sia un dato di fatto inoppugnabile e che purtroppo si stia allargando a macchia d’olio, facendo scuola anche là dove si sperava che gli anticorpi potessero respingere il morbo e trovando terreno assai fertile là dove, invece, la tradizione democratica è ancora acerba.
L’America di Trump è una nazione in guerra con se stessa dai tempi delle guerre di Bush. Obama, spiace dirlo, ha compiuto alcune scelte sagge a livello di politica interna ma in politica estera, fatta salva la non trascurabile mano tesa nei confronti del Medio Oriente, è andato incontro a una serie di fallimenti che hanno acuito la sensazione di impotenza e di perdita del proprio ruolo nel mondo di un paese che si è affidato ingenuamente a Trump nella speranza di tornare grande e di poter riportare indietro le lancette della storia. Ovviamente non è accaduto e non accadrà. Trump, anche a livello di analisi internazionale, è di una modestia imbarazzante. Non ha compreso il significato di mondo multipolare, non si è reso conto che il sovranismo non ha alcuna ragion d’essere, va avanti a colpi di slogan e propaganda malsana, provocando spesso dei crolli di borsa che finiscono col danneggiare l’economia mondiale, a cominciare proprio da quella americana, e potrebbe estrarre dal cilindro qualunque coniglio, compreso quello di una guerra lampo (che poi lampo non sarebbe) in Medio Oriente e di un inasprimento del conflitto commerciale e tecnologico con la Cina, pur di convincere l’America profonda di essere ancora il comandante in capo. Ha gioco facile a causa delle divisioni che squassano i Democratici, della scarsa consistenza politica e dialettica di Biden, della mancanza di empatia della Harris, una sorta di Clinton senza la storia e l’esperienza dell’originale, del grido delle nuove generazioni che rimarrà ancora una volta inascoltato e dell’ascesa, all’interno del partito, di un’ala radicale che è stata riconfermata in blocco alle primarie e che tornerà a Capitol Hill ancora più agguerrita e determinata a mutare equilibri e scenari di una Nazione drammaticamente diseguale.
La Cina, dal canto suo, pur essendo uscita meglio del previsto dall’emergenza Coronavirus, sconta il fatto di non aver ancora trovato il proprio posto nel mondo. Non è riuscita, infatti, a sostituire gli Stati Uniti come paese guida del pianeta e non ha un soft power all’altezza delle sue ambizioni; pertanto, si affida a un nazionalismo sfrenato e pericoloso nei confronti dei suoi “giardini di casa”, Hong Kong e Taiwan, senza rendersi conto che non siamo ai tempi di Mao e che la protervia, in un mondo così interconnesso e chiamato, volente o nolente, a camminare insieme potrebbe giocarle brutte sorprese.
In Europa, infine, sappiamo tutto di Orbán e ribadiamo, per l’ennesima volta, che o l’Unione Europea trova il modo cacciare l’Ungheria o a breve non avrà più una ragione di esistere, per il semplice motivo che Orbán è un nemico del concetto stesso di comunità e un cavallo di Troia il cui operato sta ispirando anche esecutivi un tempo al riparo da tentazioni ducesche.
Quanto alla Bielorussia, è l’ultima dittatura dichiarata presente nel continente, un paese in cui sessantacinque giornalisti sono stati arrestati con motivazioni risibili e un nemico del concetto stesso di convivenza civile.
Monitorare questo scenario di incertezza globale, dunque, sarà fondamentale per non sprofondare nell’abisso della perdita di senso. Il caos, ormai, non è alle porte: è fra noi. Ed è evidente che la sfida mortale fra una nazione in dirompente ascesa, benché messa in difficoltà dal Coronavirus, come la Cina e una nazione in ginocchio, in preda al disincanto e alla percezione diffusa che il proprio sogno si sia trasformato in un incubo, gli Stati Uniti, potrebbe condurre il pianeta a una collisione fra due pianeti non comunicanti, senza nemmeno le logiche stringenti della Guerra fredda novecentesca fra l’America e l’Unione Sovietica, basata sulla definizione di precise sfere di influenza e sulla dotazione di due sistemi di difesa, la NATO e il Patto di Varsavia, che garantivano un ordine al disordine insito in una barbarie di proporzioni globali. Oggi quell’ordine non è possibile: sono saltati schemi, confini e anche le ideologie in grado di motivare milioni, se non miliardi, di persone a credere che un clima di tensione continuo e basato su costanti colpi di Stato, in paesi usciti devastati da tanta, disumana ferocia, fosse comunque accettabile per via di un disegno superiore e dotato di una sua logica, benché perversa.
Nel mondo del 2020 è rimasta solo la barbarie e i prossimi tre mesi saranno, effettivamente, i più rischiosi di sempre, per non parlare dei successivi qualora non dovessero mutare i disequilibri mondiali che hanno trasformato un’emergenza sanitaria ed economica in una potenziale bomba diplomatica, geo-politica e, Dio non voglia, militare.
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