E’ morto a 97 anni un grande italiano, che ho avuto l’onore di conoscere personalmente per anni. Cesare Romiti, romano e romanista (ci teneva molto alle sue origini e alla sua fede calcistica), è stato uno degli ultimi grandi manager industriali. Chi lo dipinge come un reazionario, filo democristiano, antisindacale e anticomunista, è molto lontano dal vero. Aveva una sua visione moderna del capitalismo, un liberal all’inglese, non un neoliberista. Aveva visto giusto, alla lunga, sulla necessaria ricomposizione del tessuto di cooperazione sociale, messa invece in forte crisi dagli “Anni di piombo” e dalle continue aggressioni terroristiche ai capi reparto della FIAT.
Gli “anni di piombo”.
Era “un duro avversario, non un nemico” dei sindacati, che rispettava e con i quali cercò sempre una concertazione, seppure da posizioni padronali. Cosa che invece non fece più tardi al suo posto, Sergio Marchionne, che li umiliò, li divise ed uscì persino da Confindustria, tanto che lui lo criticò pubblicamente.
A capirlo e a stimarlo fu un altro grande personaggio dell’epoca, nel fronte contrapposto, il segretario generale della CGIL, Luciano Lama. Proprio lui che fu sconfitto insieme agli altri sindacati confederali nell’autunno del 1980, quando Romiti organizzò la “Marcia dei 40 mila” quadri, dirigenti e impiegati FIAT contro i picchetti agli ingressi delle fabbriche torinesi, che duravano da oltre un mese, sostenuti anche dal segretario nazionale del PCI Enrico Berlinguer. Una stima che gli fu riservata anche dagli altri due segretari della CISL, Pierre Carniti, e della UIL, Giorgio Benvenuto, che con Lama firmarono, dopo la riapertura dei cancelli, lo storico accordo sui 14 mila licenziamenti e gli ammortizzatori sociali.
Il “Dottore “e i due “Ingegneri”.
Ferocemente antiberlusconiano e instancabile lavoratore, arrivava per primo in fabbrica e ne usciva per ultimo: e se ne faceva un punto di orgoglio.
Nella sua carriera ha avuto due acerrimi rivali, entrambi ingegneri: Carlo De Benedetti e Vittorio Ghidella, il grande inventore delle auto di successo negli anni Ottanta, che riportarono profitti e quote di mercato europee.
De Benedetti, poco presente in fabbrica, irritava con i suoi comportamenti Romiti, anche un po’ invidioso per la vita agiata che conduceva (“sta sempre sulla barca, è sempre abbronzato, e non lo vedo mai in fabbrica: ma dove trova il tempo per lavorare?”). In realtà, nei pochi mesi della sua permanenza, “l’Ingegnere” voleva diventare azionista di riferimento con capitali stranieri: “voleva fare il padrone, senza soldi, in casa d’altri”, mi disse con un po’ di stizza negli anni Novanta.
Oltre a ricoprire lo stesso ruolo dirigenziale del “Dottore” (così veniva chiamato Romiti) e finanziarizzare l’azienda, strizzando l’occhio ai sindacati e al PCI (il suo “collateralismo” divenne più tardi esplicito, quando prese la Tessera numero 1 del PD), l’ingegnere nel 1976 voleva tagliare migliaia di posti nel settore automobilistico e ridurne la produzione. Contava sull’appoggio del suo vecchio compagno di scuola, Umberto Agnelli, ma alla fine i due furono sconfitti dall’Avvocato Gianni e da Romiti.
Gli fu data l’opportunità di far risollevare la Olivetti, che in effetti per alcuni anni si sviluppò e divenne uno dei primi marchi mondiali per l’innovazione tecnologica, anche nei PC. Ma poi, appunto, scelse la finanza, l’editoria, l’alimentaristica, le Telecomunicazioni, i profitti in Borsa, la fallimentare scalata alla società finanziaria belga Sociètè Gènèrale. E sappiamo come sono finite Olivetti, Omnitel, Mondadori, Buitoni, il gruppo L’Espresso/La Repubblica!
È vero che Ghidella fu, invece, mandato via per la sua visione “autocentrica” da ingegnere visionario e di avanguardia e per la sua proposta, che negli anni Ottanta appariva fantascientifica, di un’alleanza societaria con l’americana Ford. Fu un errore imperdonabile il suo licenziamento.
E anche una grande perdita per l’industria automobilistica italiana, vista la vessatoria clausola di non concorrenzialità che dovette firmare, a fronte di una consistente buonuscita.
Il “declino dell’auto”.
Ma per il “Dottore”, come mi confidò, in realtà il settore dell’auto era al capolinea per i profitti. “Si fanno più soldi con gli stracci, l’abbigliamento, che fabbricando le auto. Il costo del passaggio dal prototipo alla messa in opera delle linee di montaggio di un nuovo modello, quello dei materiali, i tempi di costruzione, il costo del lavoro e il prezzo al mercato permettono un profitto bassissimo, purtroppo. E poi la concorrenza giapponese era diventata agguerrita”. E così diede il via alla diversificazione del gruppo: non più solo auto (avendo ormai inglobato tutti marchi storici, compresa la Ferrari), ma anche finanza, turismo, immobiliare, eccetera.
Romiti e la RAI.
Nei primi mesi del 2000, come presidente della RCS-Corriere della Sera, cercò di stabilire una compartecipazione produttiva con la RAI. Direttore generale era Pier Luigi Celli, che aveva riorganizzato l’azienda in società e divisioni, in vista di una semi-privatizzazione, sotto l’egida dell’IRI, allora azionista di riferimento.
Personalmente, come responsabile della Comunicazione dell’IRI di provenienza RAI, partecipai alle trattative, che iniziarono dalla eventualità di entrare nella Radio e stabilire una partnership con i programmi sportivi, allora già in funzione con la Gazzetta dello Sport. Si cercò di creare una società paritaria di produzione e poi di dare vita anche a dei canali satellitari tematici. Con l’avvento del nuovo governo Berlusconi tutto andò ovviamente in fumo.
Il “Dottore” nel privato.
Nel privato era una persona molto simpatica e sempre disponibile a fornire consigli personali. Sapeva delle mie idee di sinistra riformista, le rispettava, ed era sempre disponibile a rilasciarmi interviste o a fornirmi notizie di prima mano.
Era anche sempre interessato alle vicende dei suoi interlocutori, rivelando una sua disponibilità umana nel privato piuttosto insolita: era prodigo di consigli.
Era Romanista, nonostante vedesse la Juve con l’Avvocato ogni volta che giocava a Torino; e tifava pure bianconero! Ma alle richieste più o meno velate di prendersi la società giallorossa, rispondeva con determinazione: “Mica sono pazzo! A me piace vedere la squadra quando gioca. Resto e voglio restare solo un tifoso”.
Cercò di ammodernare l’imprenditoria italiana e di rinnovare i rapporti sclerotici di contrapposizione ideologica con i sindacati.
Non ci riuscì del tutto.
Fu un fiero oppositore del berlusconismo, ma la sinistra non seppe cogliere quell’occasione.
Aveva un unico vezzo che lo accomunava ai “padroni”, lui che veniva da umilissime origini, che durante la guerra con la madre vedova aveva fatto la fame: ormeggiare il suo yacht in Costa Smeralda. In realtà, lo frequentava poco, ma con ironia e spirito tagliente l’aveva battezzato “MIO TIR”, equiparandolo al suo carattere di combattente. In realtà si trattava dell’anagramma di Romiti!
Se qualcuno sosterrà che fosse un reazionario, un filo-democristiano, sbaglierà di grosso. Era uno spirito libero e negli ultimi anni, alcune sue interviste a tutto tondo lo hanno confermato: criticava la sproporzione esponenziale dei redditi tra management e dipendenti, che acuiva i contrasti sociali e non corrispondeva ad una logica capitalistica moderna; si dispiaceva del non superamento della sclerosi del sistema politico; anche se vedeva con interesse la carica anticonformista dei 5Stelle, sosteneva però le riforme sociali e una svolta keynesiana della politica economica.
Col suo tipico sarcasmo romano qualche volta mi apostrofava davanti ai colleghi, sorridendo: “Lei, dottor Rossi è un bravo giornalista di strada, perchè batte i marciapiedi e non molla mai la preda”.
Nel 1998, raggiunto dalla condanna per i “fondi neri FIAT”, si dimise inaspettatamente dalla carica di presidente, che aveva ricoperto dopo l’Avvocato, anche se stava raggiungendo i fatidici 75 anni.
La mattina della notizia giudiziaria, mi misi a cercarlo. Scoprii che era venuto negli uffici societari di via Bissolati, a Roma. Con una troupe arrivammo lì di corsa e, nonostante le rimostrante della sua scorta e dei responsabili dell’Ufficio stampa, entrammo con forza. Da lontano lui apostrofò i suoi e ci fece segno di entrare.
Senza problemi si sottopose alle mie domande (il titolo FIAT in Borsa intanto “andava in altalena”), che terminarono con quella che non voleva sentirsi fare: “ma lei in realtà si dimette adesso perché il giudice l’ha condannato?”). Con un gesto di stizza mise le mani sul microfono, rispose alterato che no, non c’entrava niente e che comunque l’intervista finiva lì. Gli comunicai che avrei mandato in onda tutto, anche il suo gesto di nervosismo. “Faccia il suo dovere, non c’è problema, mi fido di lei”. Nessuna censura, come sempre. Il tutto andò in onda sul TG3. Poi ci risentimmo e mi confidò che gli era piaciuta tutta la scena.
PS: Ringrazio l’amico Marco Zatterin, vicedirettore de la Stampa, che ha scovato questa foto con il “Dottore” e Ferruccio De Bortoli, allora capo economia del Corriere.