Un tempo, di fronte all’avvelenamento di un oppositore politico, la comunità internazionale sarebbe insorta. Accadde, ad esempio, nel 2006, quando in poco più di un mese vennero assassinati prima la coraggiosa giornalista della Novaja Gazeta, Anna Politkovskaja, e poi l’agente dei servizi Alexandr Litvinenko, straziato dal polonio. Non stiamo parlando di un’era geologica fa ma di appena quattordici anni fa, quando ancora esisteva una parvenza di Unione Europea e una classe dirigente in grado di comprendere la gravità di una deriva che mette a repentaglio il futuro di tutti noi.
Qui non si tratta di attribuire colpe a chicchessia: non abbiamo le prove, al massimo qualche fondato sospetto, dettato dall’antica ma sempre attuale domanda sul cui prodest; tuttavia, non è accettabile che il nostro Paese rimanga in silenzio al cospetto di una vicenda che riguarda l’essenza della democrazia.
Ciò che sta accadendo in Russia da una ventina d’anni a questa parte, infatti, non è ascrivibile a semplici questioni interne: non lo era la Cecenia, non lo era il teatro Dubovka di Mosca, non lo era la Politkovskaja, non lo era Litvinenko e non lo è oggi Naval’nyj. Un Paese in cui ogni oppositore sa che rischia la vita, in cui non c’è giustizia per chi dice no, in cui le verità sono sempre ufficiali e di Stato, in cui la stampa è sotto il tallone del potere e in cui, fra le altre cose, vengono fabbricate balle a profusione per minare la tenuta dell’Occidente va analizzato con altre lenti. La Russia, spiace dirlo, ma non può essere trattata come un interlocutore normale perché non lo è.
Nessuno mette in dubbio il ruolo cruciale di Putin in alcune delicatissime vicende internazionali, ad esempio la Siria e il Medio Oriente, e con i tempi che corrono non ci si può permettere rotture diplomatiche che danneggerebbero in maniera esiziale una nazione in ginocchio come l’Italia; fatto sta che fra evitare alzate d’ingegno e perseguire la politica del silenzio assoluto, dell’acquiescenza e dell’indifferenza vigliacca c’è una bella differenza.
Partiti, forze di governo e d’opposizione, e anche esponenti dell’esecutivo in carica dovrebbero far sentire la propria voce, organizzare un sit-in sotto l’ambasciata russa e magari, a settembre, una manifestazione a Roma non solo per Naval’nyj ma per tutti i cronisti e gli oppositori politici minacciati, incarcerati o, peggio ancora, assassinati in ogni angolo del mondo.
Russia, Ungheria, Bielorussia, Egitto, il recente colpo di stato in Mali e la complessità di un pianeta in subbuglio, con un’America alle prese, nelle prossime settimane, con una campagna elettorale decisiva per le sorti dell’Occidente, sono altrettante spie di un malessere globale che dev’essere affrontato con la massima serietà e intransigenza.
Voltare la testa dall’altra parte, fingere di non sentire e non vedere e illudersi che le tragedie degli altri non ci riguardino da vicino è indice un provincialismo idiota che proprio non possiamo permetterci.
A settembre, subito dopo la tornata elettorale e referendaria, si scenda in piazza tutti insieme, possibilmente al Circo Massimo, esponendo un’unica grande bandiera arcobaleno, e pochi giorni dopo la si porti in marcia da Perugia ad Assisi, affinché il mondo sappia che in Italia siamo ancora in grado di indignarci e opporci alla barbarie che rischia di travolgere ogni residua certezza.
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