Non c’è solo il mare e non ci sono solo i coccodrilli, esistono altri inferni attraverso i quali bisogna passare se si vuole giocare la scommessa della vita, il viaggio verso l’Europa. Uno di questi gironi, meno gettonato dall’informazione, sempre troppo distratta quando si parla di migrazioni, ma ciononostante densamente frequentato, si chiama Rotta Balcanica e l’anno scorso è stato attraversato da 15152 persone in cerca di speranza. Si tratta di spostamenti infiniti che possono durare anche 10 mila chilometri e che negli ultimi 300, quando ragionevolmente si potrebbe pensare di avercela fatta e si potrebbe cominciare a tirare un po’ il fiato, diventano particolarmente pericolosi. L’ingresso in Europa, meglio in quell’Unione europea dove già si potrebbe chiedere asilo e protezione, è un salto nel vuoto senza alcun paracadute: ad accoglierti in Croazia non solo non c’è alcuna forma di diritto ma in cambio a chi vuole passare il confine è assicurata una generosa dose di violenza: i profughi, che non sono esclusivamente maschi single ma talvolta anche famiglie con bambini, vengono picchiati, denudati e depredati di ogni cosa non da delinquenti che approfittano della situazione con la complicità del silenzio e del buio dei boschi, ma dalle forze di polizia croata. Il tutto testimoniato da varie ong presenti lungo la rotta, tra cui il Border Violence Monitoring Network, che negli ultimi mesi ha riferito di 770 casi di maltrattamento, come riportato anche nel Dossier appena uscito di RiVolti ai Balcani, una rete di 36 associazioni, e in quello dell’ultimo numero di Nigrizia, che l’ha titolato “L’orrore dentro l’Europa”.
E di orrore a tutti gli effetti si tratta: lo dicono senza rischio di smentita le torture impresse nei corpi di chi riesce a sopravvivere al così detto Game, ovvero il tentativo di superare la frontiera tra Bosnia e Croazia, un macabro gioco che qualcuno è costretto a ripetere più e più volte sempre con il rischio di essere respinto non senza prima aver subito ogni genere di accanimento.
E, come se non bastasse, negli ultimi mesi a chi dopo mille tribolazioni ce la fa ad arrivare a Trieste viene riservata quella che con un eufemismo salvacoscienze definiscono una riammissione informale in Slovenia. In realtà si tratta di un vero e proprio respingimento che ha riguardato centinaia di richiedenti asilo, di cui non c’è traccia (non esiste alcun provvedimento), ma che il Governo italiano attua appellandosi ad un accordo Italia-Slovenia del 1996 mai ratificato dal Parlamento e in contrasto con la successiva normativa europea, in base alla quale il richiedente asilo non può essere respinto se in pericolo di vita o di persecuzione nel Paese da cui proviene (la maggior parte di loro arriva da Siria, Afghanistan, Iraq) e senza uno straccio di documento. Al di là del burocratese queste persone si ritrovano nel giro di poche ore nuovamente in Serbia o in Bosnia da dove ritenteranno il Game nella speranza di sopravvivere. Tutto sotto gli occhi dell’Unione, che più di ogni altro – ma nessuno di noi si senta escluso – sarà chiamata a rispondere alla domanda di M’zia Jafari, 30 anni, nato in Afghanistan: “Perché siamo sottoposti a trattamenti così disumani?”.
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