L’odore acre dell’esplosivo che ancora impregna l’aria…lo scempio dei corpi, orribilmente mutilati…lo sgomento di tanti, che sono accorsi e non si capacitano di quello che è successo (ma c’è qualcuno che non prova sgomento; qualcuno cerca un’agenda rossa, la trova, fa in modo che scompaia…). Quanto tempo è passato da quel giorno di luglio inoltrato, giorni caldi, l’Italia tra mare e pigrizia, e nel pomeriggio arriva come una bomba, la notizia: un pugno, tramortisce, lo sconforto ti gela; di corsa il primo aereo per andare sul luogo dove hanno ucciso l’ennesima speranza: con la sua scorta hanno massacrato Paolo Borsellino… La scena, in quella strada, richiama le devastazioni di Beirut, la telecamera indugia su quell’orrore; è atroce quello che vedi, ti segna: lui, Borsellino, e tanti altri prima di lui e dopo, erano persone vive, gli parlavi, li vedevi, li “raccontavi” e magari chissà i loro commenti alle castronerie scritte, dette; e poi corpi senza vita, sfigurati, ridotti a maschere di sangue… I giorni successivi alla strage: i funerali alla scorta, con la rabbia che esplode, dentro e fuori la cattedrale di Palermo: il neo-presidente della Repubblica, Oscar Luigi Scalfaro, è trascinato a stento fuori dalla chiesa, con il capo della polizia Vincenzo Parisi che gli fa da scudo… La cerimonia funebre privata nella chiesa di Santa Maria di Marillac dove spesso si raccoglieva in preghiera, per Borsellino. La famiglia diffonde una nota: “E’ nostro desiderio celebrare i funerali alla presenza dell’ intero nucleo familiare… siamo profondamente vicini, nell’immenso dolore comune, ai familiari delle altre vittime della strage… in tal senso, abbiamo deciso per una veglia congiunta…”. Funerali a invito, per non stringere mani non gradite.
Quanto si è detto e scritto, sulla strage di via d’Amelio… E quanto non si è detto e scritto, e chissà se mai si dirà, si scriverà. A partire dal mistero di quell’agenda rossa da cui Borsellino mai si separava… cosa conteneva non lo sapremo mai; se qualcuno l’ha fatta sparire qualcosa però doveva esserci, in grado di far tremare qualcuno. Se no, perché non farla ritrovare, come le altre cose contenute nella borsa del magistrato? Agenda a parte, ci sono gli interrogativi che da tempo, invano, pongono i figli di Borsellino. Loro pongono domande, e la risposta è il silenzio. Peccato che non ci sia un solo parlamentare che abbia trasformato quelle domande in almeno un’interrogazione. Non tanto perché ci si illuda che qualcuno risponda: per lasciarne una traccia negli atti parlamentari. Sono tredici le domande poste da Fiammetta, Lucia e Manfredi Borsellino; e sono altrettanti capitoli di una storia oscura, inquietante.
1) Perché le autorità preposte alla sicurezza non misero in atto tutte le misure necessarie per proteggere Borsellino, che dopo la morte di Falcone era diventato l’obiettivo numero uno di Cosa nostra?
2) Perché per una strage di così ampia portata fu prescelta una procura composta da magistrati che non avevano competenze in ambito di mafia? (L’ufficio era composto dal procuratore capo Giovanni Tinebra, dai sostituti Carmelo Petralia, Annamaria Palma (dal luglio 1994) e Nino Di Matteo (dal novembre 1994).
3) Perché via D’Amelio, la scena della strage, non fu preservata consentendo così la sottrazione dell’agenda rossa di mio padre? E perché l’ex pm allora parlamentare Giuseppe Ayala, fra i primi a vedere la borsa, ha fornito versioni contraddittorie su quei momenti?
4) Perché i pm di Caltanissetta non hanno mai interrogato il procuratore capo di Palermo Pietro Giammanco, che non aveva informato mio padre della nota del Ros sul “tritolo arrivato in città” e gli aveva pure negato il coordinamento delle indagini su Palermo, cosa che concesse solo il giorno della strage, con una telefonata alle 7 del mattino?
5) Perché nei 57 giorni fra Capaci e via D’Amelio, i pm di Caltanissetta non convocarono mai mio padre, che aveva detto pubblicamente di avere cose importanti da riferire?
6) Cosa c’è ancora negli archivi del vecchio Sisde, il servizio segreto, sul falso pentito Scarantino (indicato dall’intelligence come vicino ad esponenti mafiosi) e sul suo suggeritore, l’ex capo della squadra mobile di Palermo Arnaldo La Barbera?
7) Perché i pm di Caltanissetta non depositarono nel primo processo il confronto fatto tre mesi prima fra il falso pentito Scarantino e i veri collaboratori di giustizia (Cancemi, Di Matteo e La Barbera) che lo smentivano? Il confronto fu depositato due anni più tardi, nel 1997, solo dopo una battaglia dei difensori degli imputati.
8) Perché i pm di Caltanissetta furono accomodanti con le continue ritrattazioni di Scarantino e non fecero mai il confronto tra i falsi pentiti dell’inchiesta (Scarantino, Candura e Andriotta), dai cui interrogatori si evinceva un progressivo aggiustamento delle dichiarazioni, in modo da farle convergere verso l’unica versione?
9) Perché la pm Ilda Boccassini (che partecipò alle prime indagini, fra il giugno e l’ottobre 1994), firmataria insieme al pm Sajeva di due durissime lettere nelle quali prendeva le distanze dai colleghi che continuavano a credere a Scarantino, autorizzò la polizia a fare dieci colloqui investigativi con Scarantino dopo l’inizio della sua collaborazione con la giustizia?
10) Perché non fu mai fatto un verbale del sopralluogo della polizia con Scarantino nel garage dove diceva di aver rubato la 126 poi trasformata in autobomba? Perché i pm non ne fecero mai richiesta? E perché nessun magistrato ritenne di presenziare al sopralluogo?
11) Chi è davvero responsabile dei verbali con a margine delle annotazioni a penna consegnati dall’ispettore Mattei a Scarantino? Il poliziotto ha dichiarato che l’unico scopo era quello di aiutarlo a ripassare: com’è possibile che fino alla Cassazione i giudici abbiano ritenuto plausibile questa giustificazione?
12) Il 26 luglio 1995 Scarantino ritrattava le sue dichiarazioni con un’intervista a Studio Aperto. Prima ancora che l’intervista andasse in onda, i pm Palma e Petralia annunciavano già alle agenzie di stampa la ritrattazione della ritrattazione di Scarantino, anticipando il contenuto del verbale fatto quella sera col falso pentito. Come facevano a prevederlo?
13) Perché Scarantino non venne affidato al servizio centrale di protezione, ma al gruppo diretto da La Barbera, senza alcuna richiesta e autorizzazione da parte della magistratura competente?
Chi sente come dovere la memoria si appunti queste tredici domande, e non si stanchi di porle. E a proposito di memoria: cinque, gli agenti che scortavano Borsellino, e morti con lui. Ricordiamoli:
Agostino Catalano, 43 anni, un veterano dell’Ufficio scorte. Da molti anni garantiva la sicurezza dei magistrati, si era appena risposato e aveva due figli. Poche settimane prima aveva salvato un bimbo che stava per annegare dinanzi alla spiaggia di Mondello.
Walter Eddie Cosina, 31 anni. Da una decina di giorni era stato assegnato alla scorta del magistrato. Era arrivato nel capoluogo siciliano da Trieste dove per 10 anni aveva lavorato nella Digos, frequentando corsi speciali di addestramento per fare parte delle scorte. Dopo la strage di Capaci aveva chiesto di andare come volontario a Palermo nell’Ufficio scorte. Era sposato e aveva un bimbo in tenera età.
Vincenzo Li Muli, 22 anni. Era entrato nel gruppo dopo la strage di Capaci per sostituire i colleghi caduti. L’aveva chiesto lui al giudice e non aveva detto niente ai suoi genitori, perché sapeva che sarebbero stati in pena. Quel giorno sua madre sentì alla televisione che Borsellino era morto con la scorta e disse: “Poveri ragazzi e povere mamme”. Non sapeva che fra loro c’era anche suo figlio.
Emanuela Loi 24 anni. Dopo la strage di Capaci fu assegnata al nucleo scorte di Palermo; è stata la prima donna a entrare a far parte di una scorta assegnata a obiettivi a rischio e la prima a morire. Quando arrivò a Palermo disse: “Se ho scelto di fare la poliziotta non posso tirarmi indietro. So benissimo che fare l’agente di polizia in questa città è più difficile che nelle altre, ma a me piace”. Quella domenica non doveva essere lì. Era a disposizione e fu aggregata alla scorta all’ultimo minuto.
Claudio Traina, 27 anni. Agente scelto, era padre di un bambino. Nel corso di un viaggio in Brasile aveva conosciuto una ragazza e l’aveva portata in Italia. Il loro figlio, al momento dell’attentato, aveva pochi mesi.
Nella strage di via D’Amelio muoiono in sei. In realtà, le vittime sono sette; e questa è la storia della settima vittima: è una ragazza di 17 anni, Rita Atria. Vive a Partanna, vicino Trapani. In paese si fronteggiano gli Accardo e gli Ingoia, una ventina di morti ammazzati in pochi mesi; tra quei morti anche don Vito padre di Rita; e il fratello Nicola. La madre di Rita le intima mille volte di non immischiarsi negli affari della cosca, di non fare domande, di non cercare risposte. Lei invece ascolta e vede. Capisce e ricorda. Un giorno racconta quello che sa di quei clan chiusi, impenetrabili, fornisce a Borsellino le chiavi di lettura per conoscere equilibri e gerarchie; collabora con la giustizia, per la famiglia è un’infame, viene ripudiata.
Poi, come sappiamo, Borsellino viene ucciso; anche Rita comincia a morire. Quel giudice per lei non è solo un giudice, è il padre che non ha mai avuto; una depressione da cui non si solleva più. Non trova una ragione per vivere, si lancia dalla finestra del quarto piano dell’appartamento romano in cui ha trovato rifugio. La tragedia non finisce qui. C’è l’ultimo oltraggio: la madre, con un martello spacca la tomba dove Rita riposa, distrugge la fotografia della figlia che ha infangato l’onore della famiglia. Dirà di averlo fatto perché quella fotografia non le piaceva…