Il disegno di legge di riforma della governance della Rai, proposto da Liberi e Uguali, è apprezzabile sotto molto aspetti; primo fra tutti l’approccio parlamentare – e non governativo – a una questione che chiama in causa la garanzia del pluralismo e la libertà d’informazione, pietra angolare del nostro ordinamento democratico.
Le riforme dell’assetto istituzionale che si sono succedute negli ultimi 15 anni si sono distinte per il loro carattere strumentale. Dapprima, la legge Gasparri del 2004 che beatificava il conflitto d’interessi e il conseguente congelamento del sistema italiano in un duopolio asfittico che avrebbe inevitabilmente penalizzato non solo i due finti contendenti ma l’intero sistema dell’audiovisivo e dei media digitali; successivamente, la riforma attuata dal Governo Renzi nel 2016 con l’unico intento di restaurare il pieno controllo dell’esecutivo sul servizio pubblico, in evidente contrasto con la parlamentarizzazione stabilita dalla Corte Costituzionale nel 1974.
La novità più rilevante del ddl Fornaro è la proposta di un sistema societario duale che prevede un Consiglio di sorveglianza con compiti di pianificazione e controllo e un Consiglio di gestione con compiti strettamente esecutivi. Il ruolo dell’azionista, il Mise, risulta limitato, mentre resta invariato il ruolo di indirizzo e di vigilanza della Commissione parlamentare. Questo schema duale assicurerebbe alla Rai maggiore autonomia dai partiti e un sostanziale affrancamento dalle regole della Pubblica Amministrazione, vincoli che hanno progressivamente indebolito il dinamismo aziendale.
Inoltre, il disegno di legge si rivela coerente sia con il testo della Concessione che, è bene ricordarlo, assegna il servizio pubblico alla Rai, in esclusiva, sino al 2027, sia con gli obiettivi e gli obblighi previsti dal Contratto di servizio. Se fosse approvato, gli amministratori e il management non avrebbero più alibi cui far ricorso per giustificare le proprie inadempienze.
Sicuramente saranno oggetto di dibattito il bilanciamento dei poteri e di distribuzione delle deleghe. Ad esempio, il Presidente del Comitato di controllo interno al Consiglio di sorveglianza viene indicato dal Governo e, sebbene non abbia diritto di voto, prende parte alle riunioni del Consiglio di gestione: una presenza che, di fatto, irrobustisce il suo ruolo.
Inoltre, si prevede un Presidente che è anche AD unico, laddove, sarebbe più logico lasciare al Consiglio di gestione l’articolazione delle varie deleghe, assegnandole, di volta in volta, ai singoli consiglieri in base a specifiche esigenze in modo da rendere ancora più tangibile il pluralismo e la distanza tra la Rai e l’esecutivo. Altri emendamenti migliorativi sono stati proposti, sul sito di Articolo 21, dall’avv. Paolo Favale nel dicembre scorso (il pdl Fornaro e la governance Rai).
Ma l’assetto istituzionale è solo un fattore, per quanto fondamentale, della governance del servizio pubblico. Infatti, se per governance intendiamo tutte le procedure volte a creare le condizioni perché il management possa operare al meglio e l’azienda possa centrare i suoi obiettivi, non si può prescindere da una contestuale e radicale riforma dell’attuale modello organizzativo che risale al 1975 quando la Rai era in regime di monopolio e il termine multimediale ancora non esisteva: un modello verticale per media (radio, tv, internet, ecc.) che ricorda le monadi Leibniz senza porte né finestre, strutture incomunicabili tra loro e, talvolta, anche in competizione.
Negli ultimi vent’anni i vertici aziendali si sono cullati nell’illusione che la multimedialità potesse nascere dalla somma delle monomedialità e che “strutture di programmazione” di piccolo cabotaggio, come quelle delle reti, potessero svolgere anche un ruolo ideativo e produttivo, e fossero in grado di competere con colossi multinazionali, altamente specializzati nei programmi d’intrattenimento e culturali. Nella Rai attuale le strutture generaliste producono per un solo medium, a utilità immediata ed esclusivamente per la messa in onda; al contrario, nelle aziende organizzate per generi, le strutture tematiche producono contenuti per tutti i media, per il mercato internazionale e riproponibili nel tempo.
La creazione di nuovi format richiede nuovi profili professionali e ingenti risorse; pertanto, le reti non possono far altro che acquistarli – piuttosto che idearli e produrli – con la conseguenza di omologare sempre più l’offerta di servizio pubblico a quella delle Tv commerciali.
Finalmente, l’ultimo piano industriale aveva recepito l’indifferibilità del passaggio a un’organizzazione orizzontale per generi ma, con una motivazione poco convincente, il processo si è arrestato. Pertanto, nell’augurare un buon esito al disegno di legge Fornaro, è bene ribadire che, in assenza di un nuovo modello ideativo e produttivo, la riforma della governance non si può dire compiuta.