Ha ragione da vendere l’opposizione polacca quando si batte contro i lati oscuri della rielezione del presidente Duda al ballottaggio delle Presidenziali dello scorso 12 luglio, così come hanno ragione tutti coloro che denunciano la deriva anti-democratica nel Vecchio Continente. Ormai Polonia e Ungheria non sono più nazioni ma simboli: di illiberalità, di autoritarismo, di costante e disumana violazione dei diritti, di regresso, di repressione nei confronti del pensiero dissonante, di assoggettamento della magistratura alla volontà del governo, di smantellamento della libertà d’espressione, di sconfitta del concetto stesso di dissenso. Stiamo assistendo, inerti, all’ascesa di quella che Veltroni una volta ha definito “democrazia autoritaria”. Potremmo scrollare le spalle e rassegnarci a considerarlo uno degli effetti del trumpismo, cui fa da contraltare il putinismo in una riedizione della Guerra fredda che speravamo, dopo l’89, di esserci lasciati alle spalle.
Volendo compiere un’analisi geo-politica che scavi a fondo dei problemi, invece, possiamo dire che un mondo con sette miliardi e passa di abitanti fa sempre più fatica a tollerare la democrazia e le sue regole, in quanto siamo al cospetto di una mole di popolazione tale che molti la reputano ingestibile, se non con metodi che a noi destano ribrezzo.
Poi c’è la questione, non meno cogente, del tramonto dell’utopia in un Occidente in cui è venuta meno non solo l’aspirazione rivoluzionaria che caratterizzava, forse anche ingenuamente ma senz’altro con estrema dignità, i sessantottini ma anche l’affermazione del pensiero, in una discesa agli inferi che non risparmia nessuno. Basti pensare a ciò che sta avvenendo in Italia, con le istituzioni pressoché esautorate e un Parlamento ridotto se non a “bivacco di manipoli”, comunque a luogo di mera ratifica di decisioni assunte altrove.
Tornando alla Polonia, non c’è dubbio che Varsavia stia facendo scuola, al pari di Budapest. Un’Europa che si ostina a tollerare al proprio interno nazioni che non hanno nulla a che spartire con i princìpi su cui si fonda, o si dovrebbe fondare, è un progetto finito, una bandiera ammainata, una speranza che viene meno, travolgendo le prospettive di riscossa di un Occidente che, almeno fino a quando Trump sarà alla Casa Bianca, non potrà contare sul contributo proficuo degli Stati Uniti.
Per citare Gramsci, siamo sospesi fra il non più e il non ancora ed è evidente che stiano emergendo mostri che rischiano di distruggere tutto ciò che abbiamo faticosamente creato in sette deenni di pace e benessere. Lo smantellamento dell’Europa, da questo punto di vita, non è che il primo passo. Il successivo sarà la fine di quell’ordine liberale che Putin annunciava un anno fa dalle colonne del Financial Times, con l’auspicio di sostituirlo presto con un ordine illiberale in cui non esistano più fastidi come le elezioni e la volontà popolare.
Chiunque si illuda che i piccoli Putin che allignano a Est perseguano un piano diverso sta sbagliando previsione. L’Europa, per ritrovare se stessa, deve fissare nuove regole di ingaggio ed escludere chi decida di non attenervisi. Senza una magistratura pienamente indipendente e senza libertà d’espressione non può esserci convivenza civile. E senza convivenza civile, come abbiamo scritto commentando l’esito del voto polacco, l’Europa altro non è che un’espressione geografica.
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