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Turchia. Erdogan uccide lo Stato di diritto e trasforma il suo Paese in un una immensa prigione

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Di Valter Vecellio

Chiediamolo a quei due ragazzi che non necessariamente sono già preda di disincanto e cinica indifferenza; chiediamolo a quel maturo professionista che in gioventù ha creduto e si è battuto per ideali che ha visto mille volte traditi, ma non per questo si è rassegnato. Ecco, chiediamo loro a bruciapelo: Ibrahim Gokcek, dice nulla questo nome? Se si dovesse fare un sondaggio la maggioranza molto probabilmente, scuoterebbe la testa: “Mai sentito”. Alla fine di aprile di quest’anno, Ibrahim scrive una lettera: «Sono sul palco, con la cinghia del basso attaccata al collo, quella con le stelle che mi piace di più. Di fronte a me, centinaia di migliaia di persone, con i pugni alzati, cantano “Bella ciao”. La mia mano batte le corde del basso come fosse il migliore del mondo… Mi chiamo Ibrahim Gokcek. Per 15 anni ho suonato il basso nel Grup Yorum». In quella lettera Ibrahim scrive la sua storia, quella della sua band e della Turchia schiacciata dal tallone del presidente-sultano Recep Tayyp Erdogan. Dopo 323 giorni di sciopero della fame, Ibrahim muore. Un mese prima si era spenta Helin Bolek, ha resistito 288 giorni; il 24 aprile è toccato a Mustafa Kocak, 297 giorni. Digiuni disperati, tre ragazzi di neppure trent’anni che si lasciano morire (e sono lasciati morire); contro di loro l’accusa, peraltro mai provata, di terrorismo. Nella citata lettera, Ibrahim scrive: “Il motivo per cui siamo stati inseriti in questo “elenco terroristico” è il seguente: nelle nostre canzoni parliamo di minatori costretti a lavorare sotto terra, di lavoratori assassinati da incidenti sul lavoro, di rivoluzionari uccisi sotto tortura, di abitanti dei villaggi il cui ambiente viene distrutto”.

Vogliamo trovare una data, per l’inizio delle persecuzioni? Fissiamola al 2016, l’anno del tentato golpe contro Erdogan, un “golpe” su cui è lecito avanzate più di un dubbio, e che forse sarebbe meglio definire un “auto-golpe” per giustificare quello che effettivamente è accaduto: decine di migliaia di turchi, licenziati, perseguitati, arrestati. giornalisti, scrittori, deputati, accademici, accusati senza prove di essere “nemici dello Stato”; e tra loro anche Ibrahim, Helin, Mustafa, e altri musicisti della band: sulla loro testa una taglia da 42mila dollari. Due riescono a fuggire in Francia, ottengono l’asilo. Gli altri… Non c’è una strada, una piazza, una targa, nulla che ricordi il loro sacrificio. Non esistono, ed è come non siano mai esistiti. Pensate che il ministro degli Esteri Luigi Di Maio ne abbia contezza?

Il 19 giugno 2020 le agenzie di stampa diffondono il seguente comunicato:

“La Turchia è pronta a collaborare con l’Italia sulle questioni energetiche. Lo ha dichiarato il ministro degli Esteri turco Mevlut Cavusoglu nel corso di una conferenza stampa congiunta con l’omologo italiano Luigi Di Maio al termine di un incontro ad Ankara. «Riguardo all’energia e ad attività relative vogliamo lavorare seriamente con l’Italia nel Mediterraneo orientale. Abbiamo la Turkish Petroleum e l’italiana Eni e altre aziende. Ci sarà anche collaborazione tra i nostri ministeri dell’Energia», ha aggiunto Cavusoglu. «Le ricchezze del Mediterraneo orientale devono essere condivise da tutti i Paesi della regione», ha proseguito, affermando che Ankara «respinge le azioni unilaterali che tengono la Turchia fuori da questo processo». «Nei prossimi giorni avrò interlocuzioni con il governo ma anche con altri parti libiche per cercare di trasmettere tutta l’apprensione non solo dell’Italia, non solo dell’Europa, ma di tutta la comunità internazionale». Lo ha detto il ministro degli Esteri Luigi Di Maio nella conferenza stampa ad Ankara con l’omologo turco Mevlut Cavusoglu, secondo cui «i prossimi passi saranno quelli di incoraggiare le parti a raggiungere il cessate il fuoco e ad avviare il dialogo politico». Ecco: togliamo i nomi, e si ha, parola più parola meno, lo stesso “cordiale” e “proficuo” tono degli incontri con l’Egitto di Abdel Fattah al-Sisi, la Russia di Vladimir Putin, la Cina di Xi Jinping…

Per tornare alla Turchia: tra l’indifferenza dei più, l’ignoranza (letterale) dei tanti, il compiacimento di qualcuno, si assiste a svolte che sconvolgono tutto. Racconta il giornalista e analista turco Murat Cinar: “Dal 2016 sono iniziati processi assurdi. Kocak condannato all’ergastolo aggravato con una testimonianza anonima, il giudice ha addirittura detto di aver preso la decisione sulla base della propria coscienza. Processi come quelli ai giornalisti di “Cumhuriyet”, accusati sulla base di chiamate perse sui loro telefoni di cittadini poi inquisiti per il golpe. Le accuse sono diventate estreme, una messinscena giudiziaria sulla base di testimonianze anonime o prove costruite dopo gli arresti”. Conclusione: “La Turchia non ha uno stato di diritto”. C’è una costante, una “coerenza” nella Turchia post 2016: ogni possibile voce contraria, anche solo potenzialmente, a Erdogan viene perseguitata. Anche parlamentari come Enis Berberoglu, del Partito repubblicano popolare (Chp), Leyla Guven e Musa Farisogullari del Partito di sinistra filo-curdo Hdp. Gli si revoca senza tanti complimenti l’immunità parlamentare; così Guven e Farisogullari sono formalmente accusati di “spionaggio e terrorismo” per appartenenza all’Unione delle comunità del Kurdistan (Kck) dove domina il Partito dei lavoratori del Kurdistan (Pkk). Condannati a sei e nove anni di carcere. Berberoglu è stata comminata a nove anni per rivelazione di segreti governativi.

Le politiche liberticide del “sultano” Erdogan hanno fatto sì che oltre 150mila dipendenti pubblici siano stati licenziati; quasi centomila persone sono finire in carcere. Il consenso è in caduta libera: secondo un sondaggio dell’istituto turco “Avrasya”, solo il 30 per cento dell’opinione pubblica turca approva l’operato di Erdogan, che però non demorde. Dopo aver messo il bavaglio a stampa e televisioni, dopo aver legato le mani alla magistratura è la volta delle amministrazioni locali: almeno ventun sindaci curdi, eletti nel marzo del 2019 restano dietro le sbarre; altri cinque in custodia. Ankara ha nominato finora amministratori governativi fiduciari in 45 municipalità dalle elezioni locali dello scorso anno accusando i sindaci di legami col Pkk. Il Consiglio per la radio e la televisione della Turchia (Rtuk), controllato da membri della coalizione di governo, ha sanzionato 2 canali televisivi di opposizione, “Halk Tv” e “Tele 1”, sospendendone per cinque giorni il diritto alle trasmissioni per presunte offese alle autorità turche e alla figura storica del sultano ottomano Abdul Hamid II. Secondo le opposizioni e ONG locali e internazionali, i media filogovernativi coprono circa il 90 per cento del panorama informativo ufficiale. Nella graduatoria 2020 sulla libertà di stampa di Reporters sans Frontières, la Turchia occupa il 154esimo posto su 180 Paesi. Tra i tanti episodi che confermano il funzionamento a pieno regime della macchina repressiva, la requisitoria pronunciata da un procuratore di Istanbul con la richiesta di una condanna all’ergastolo per sedici persone, tra cui Osman Kavala, imprenditore turco di 61 anni nato in Francia e personalità di primo piano della società civile turca. Kavala è detenuto in isolamento da quasi cinquecento giorni. Il suo arresto risale all’ottobre del 2017. Un arresto che  aveva sorpreso molti osservatori: Kavala ha dedicato la vita al dialogo tra le comunità in Turchia, e tra la Turchia e l’Europa; lontanissimo dunque dall’accusa mossagli: “tentato rovesciamento del governo”. Erdogan ha deciso di farne un capro espiatorio: lo ritiene tra i responsabili delle rivolte di piazza Taksim del 2013: la più vasta sfida al potere di Erdoğan da parte di una “generazione nutrita dalla cultura individualista occidentale”, dice Ariane Bonzon, giornalista autrice di “Turquie, l’heure de vérité”. Nel mirino di Erdoğan la società civile liberale, culturalmente vicina all’Europa: qualsiasi finanziamento ad associazioni o iniziative culturali proveniente dall’estero è ostacolato, mentre il governo esalta lo splendido isolamento della Turchia, avvolta nel suo glorioso passato ottomano. Ecco dunque che tra silenzi imbarazzati (ma neppure tanto, a ben vedere), e sostanziale indifferenza, biechi interessi, ipocrisie e tutela di affari di ogni tipo possono farla da padrone.

In ballo “affari” lucrosissimi. Per dire: le gare per due appalti giganteschi, il canale di 45 chilometri tra Mar Nero e Mar di Marmara; il terzo tunnel sotto il Bosforo. Mega progetti, e si può ben parlare di “Oro della Turchia”, mutuando l’azzeccato titolo del libro di Giovanna Loccatelli (Rosenberg & Sellier), illuminante, da questo punto di vista. Ora nel mirino del regime del “sultano”, gli avvocati.  Il partito di Erdogan ha presentato al Parlamento di Ankara un progetto di legge di riforma degli ordini degli avvocati, contestato dai legali, che lo ritengono un tentativo di limitarne l’indipendenza. Ergogan punta a permettere la creazione di più ordini all’interno delle province con almeno cinquemila iscritti, come Istanbul, Ankara e Smirne, rompendo così l’attuale unità delle organizzazioni. Secondo il partito al governo, sono misure per “democratizzare” gli ordini da approvare prima delle nuove elezioni interne di ottobre. Le nuove strutture potranno essere formate con un minimo di 2 mila associati. Gli avvocati, che hanno già manifestato in massa davanti al palazzo di giustizia di Caglayan a Istanbul, denunciano invece un tentativo di Erdogan di dividerli per indebolirli. Sempre gli avvocati hanno manifestato nei giorni scorsi con una “marcia per la giustizia”, ostacolata dalla polizia alle porte di Ankara. “Il potere usa la sua capacità di legiferare come un’arma”, accusato il presidente dell’ordine di Istanbul, Mehmet Durakoglu.

Di questa lenta, progressiva, all’apparenza inesorabile involuzione della Turchia, che giorno dopo giorno assume i connotati del regime autoritario e brutalmente violento, poco si parla, ancor meno si sa. Le puntuali corrispondenze da Istanbul assicurate dal corrispondente di “Radio Radicale” Mariano Giustino, e poco altro. Sono cose che annoiano, che non sono interessanti? Eppure la Turchia è un paese membro della NATO; nello scacchiere mediterraneo gioca un ruolo di primo piano, e lo vediamo in Libia… Ma certo, come dice il proverbio: occhio non vede, cuore non duole. E l’Italia è specialista nello scansare questo tipo di dolori.

Da jobsnews


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