“La prima estate senza cicogne fu un segno, e quando in autunno gli spinarelli dal ventre bianco presero a galleggiare nell’acquitrino, anche quello fu un segno. “E’ la fine del mondo” diceva Marret Feddersen e ne vedeva i segni dappertutto”.
Sono queste le righe d’apertura di “Tornare a casa”, l’intenso romanzo firmato da Dörte Hansen, una delle voci più significative della narrativa tedesca, in libreria in Italia dallo scorso 25 giugno con Fazi Editore (300pp, 18,50 Euro).
Marret Feddersen la fine del mondo la vedeva ovunque, nelle foglie dei vecchi olmi improvvisamente ingiallite dall’arrivo dell’autunno, nella morte in strada del figlio minore degli Hamke, nel capriolo travolto dalla mietitrebbia del figlio maggiore di Paule Bahnsen; insomma, la percepiva in ogni cambiamento, in ogni attimo in cui le cose cessano di essere quelle che erano state sino a quel momento.
A Brinkebüll, immaginario borgo della Frisia settentrionale (siamo nel Land dello Schleswig-Hollstein, il più a nord del Paese) Marret – figlia illegittima dell’oste, Sonke Feddersen, e della bella figlia del calzolaio, Ella Paulsen – con i suoi zoccoli bianchi e il suo opuscolo “Svegliatevi!” cerca di scuotere, sebbene vanamente, le coscienze e le abitudini immutabili degli abitanti dal loro secolare torpore. In quel paese, isolato dal mondo e coperto dalle nevi dell’inverno, Marret viene considerata una pazza, una ritardata, che ama le canzoni pop e predice l’Apocalisse imminente: “Sembrava vivere dietro una parete di vetro. Dovevi gridare o sbracciarti per raggiungerla, e a volte il vetro era pure appannato”.
La sua fine del mondo era arrivata a 17 anni. “C’ho una cosa che non va più via’, disse alla madre, fissandola con gli occhi sbarrati”. Suo figlio Ingwer era nato senza un padre, frutto di un rapporto occasionale avuto con tre uomini diversi, tre ingegneri che nel ’65 avevano progettato la ricomposizione fondiaria di Brinkebüll e che alloggiavano alla locanda Feddersen. Ingwer era stato allevato dai nonni Sonke e Ella – che lui chiama mamma e papà, “visto che la madre si comportava come se il bambino non la riguardasse” – e messo dietro il bancone della locanda a spillare birre sin dalla prima infanzia. Tuttavia, a dispetto della realtà borderline di quel paese isolato e gretto, Ingwer studia, andando al liceo per poi diventare professore universitario d’archeologia a Kiel. Egli si allontana dalle proprie origini eppure è da quelle che viene richiamato, trent’anni dopo, alla soglia dei 50 anni, insoddisfatto della propria carriera e di una strana convivenza a tre con Raghild e Claudius. Il suo ritorno a Brinkebüll è l’occasione per riscoprirsi, tra passato e presente, tra legami di sangue non scelti e rapporti frutto di decisioni personali.
“Tornare a casa” è un titolo che porta con sé tanta umanità, in un racconto forte e profondo che si snoda in un continuo andirivieni nel tempo, ricco di personaggi secondari vividi e di grande spessore narrativo e dall’accurata caratterizzazione dei luoghi. Il romanzo della Hansen – libro dell’anno per lo Spiegel e i librai tedeschi – è un viaggio onirico ed evocativo tra le vicende umane e l’inesorabile cambiamento dei tempi.
“Le ere cominciano e finiscono, niente di trascendentale. Per uno del mestiere era sorprendente averci messo tanto a capirlo. Il paese, quella terra, se la cavava bene anche senza di lui. Un’antica terra morenica, levigata e scalfita, non aveva bisogno di Ingwer Feddersen. Non aveva bisogno di nessuno. Il vento era lo stesso di sempre. Affilava le pietre e scuoteva gli alberi, piegava le schiene. Neanche quel vento antico si curava di cosa facevano le persone, se si fermavano o passavano oltre. Quel vento se ne infischiava totalmente dell’inerzia umana”.