Alla commemorazione per i 25 anni dal genocidio di Srebrenica si attendevano centomila persone. Saranno, causa restrizioni Covid-19, molte meno. Le numerose iniziative artistiche e di memoria quest’anno, in assenza di un momento di conforto collettivo, acquisiscono ancora maggiore importanza
I funerali delle vittime identificate negli ultimi dodici mesi – quest’anno in tutto otto – si terranno regolarmente, così come si svolgerà la tradizionale commemorazione dell’11 luglio. Ma il venticinquesimo anniversario del genocidio di Srebrenica si svolgerà in una cornice molto ridimensionata. L’incidenza del Covid, che in Bosnia Erzegovina era stata relativamente contenuta nei mesi primaverili, si è riacutizzata nelle ultime settimane, comportando nuove restrizioni sugli eventi pubblici e sugli arrivi dall’estero.
Prima della pandemia, gli organizzatori prevedevano circa centomila persone e di questi almeno diecimila, provenienti da tutto il mondo, sarebbero stati i partecipanti attesi alla Marcia della Pace. È il cammino di circa cento chilometri che riprende a ritroso quello compiuto da migliaia di bosniaci musulmani nel luglio 1995, che cercarono – solo una piccola parte vi riuscì – di mettersi in salvo dalle milizie serbo-bosniache che avevano appena occupato la cittadina di Srebrenica per poi operare l’eliminazione sistematica di tutti gli uomini adulti catturati, almeno 8.372 secondo l’elenco del Memoriale di Potočari.
In questa edizione della marcia, partita la mattina dell’8 luglio, i partecipanti ammessi al cammino sono stati solo un centinaio, tutti reduci della marcia di 25 anni fa. “Ogni notte sogno tutto questo“, racconta uno di loro, Nazif Krdžić, al portale Klix.ba . “Allora affiorano i ricordi di quelli che si misero in marcia insieme a me e che però non sono arrivati vivi”. Un altro, Almedin Bećirović, è tornato dall’Olanda per ricordare i due fratelli e il papà, morti durante la marcia del 1995. “Mi sforzo al massimo di rendere omaggio, a prescindere dall’appartenenza religiosa. Ma chi nega il genocidio dovrebbe essere punito, è inaccettabile”.
Sono numerose le diverse iniziative artistiche e di memoria, che quest’anno acquisiscono ancora maggiore importanza, nell’assenza del momento di conforto collettivo. I capannoni del villaggio di Potočari, ex-base del battaglione olandese dell’Onu – che nel 1995 doveva difendere la zona protetta di Srebrenica e abbandonò invece la popolazione civile al proprio destino – sono oggi lo spazio espositivo del Memoriale di Potočari che si trova davanti al cimitero delle vittime, alle porte della cittadina. È qui che il pittore Safet Zec esporrà fino al 7 ottobre la mostra “Exodus”, con alcuni dipinti che raffigurano scene tragicamente iconiche della popolazione in fuga da Srebrenica: una “risposta artistica e umana” all’orrore, ha spiegato Zec. Lo stesso Memoriale sta presentando sul proprio sito diversi progetti, da 12 dana sjećanja (“12 giorni di memoria”, versione in inglese qui ) raccolta di testimonianze e storie di vita legate ai tragici eventi di Srebrenica con particolare attenzione alle donne e al loro ruolo di “vittime, testimoni, familiari ed attiviste per la verità”, alle testimonianze di coloro che vissero il genocidio da bambini (video, sottotitolati in inglese, qui ).
Sempre in questi giorni, l’artista bosniaca-americana Aida Sehović proporrà per la prima volta a Srebrenica la sua installazione Što te nema (“Perché non ci sei”), che consiste nella disposizione di circa 8.000 tazzine di caffè bosniaco (i fildžani) raccolte nel corso degli anni da famiglie bosniache di tutto il mondo. È un “monumento nomade” che, secondo le parole dell’artista, intende rappresentare simbolicamente il numero delle vittime del genocidio di Srebrenica e uno spazio di “guarigione e conciliazione collettiva”.
Questi e tanti altri progetti servono non solo a tenere alta l’attenzione internazionale, ma anche a custodire la memoria dei fatti di Srebrenica come un processo vivo, partecipativo, ispirato a valori universali. Quanto mai necessario dato che nei dodici mesi dall’ultima commemorazione si segnalano mancati progressi e, al contrario, sono stati fatti veri passi indietro in molti aspetti decisivi per una elaborazione del trauma, premessa necessaria una riconciliazione sociale.
Processi incompleti
La sentenza definitiva della giustizia internazionale al generale Ratko Mladić, originariamente prevista per lo scorso marzo, avrebbe dovuto chiudere una volta per tutte il percorso giudiziario e completare quel senso di riparazione atteso da tanto, troppo tempo. Invece l’IRMCT (la Corte di secondo grado erede del Tribunale internazionale per l’ex-Jugoslavia) ha rinviato tutto al 2021, per l’emergenza-pandemia e per i problemi di salute dello stesso Mladić.
È vero che una conferma dell’ergastolo appare prevedibile, se non scontata, considerando i precedenti e la giurisprudenza consolidata. Ma l’indeterminatezza lasciata dal mancato punto finale ravviva la sensazione di ingiustizia. Qualcuno , seguendo la analogia che viene spesso tracciata tra la corte dell’ex-Jugoslavia e quelle post-seconda guerra mondiale, segnala che è come se il Tribunale di Norimberga fosse stato ancora operativo nel 1971.
A tutto ciò si aggiunge la frustrazione per i tanti quadri medi e inferiori tra ufficiali militari e di polizia che non sono mai stati perseguiti dalla giustizia internazionale. La cooperazione tra le procure dei diversi paesi post-jugoslavi, che pure ha avuto momenti virtuosi in passato, oggi è ai livelli minimi e risente delle pressioni politiche – a Belgrado, ma anche a Zagabria e Sarajevo – per accelerare certi procedimenti e insabbiarne altri. “Tutti hanno le ‘nostre’ vittime e i ‘loro’ crimini di guerra”, ha recentemente commentato l’attivista serba per i diritti umani Natasa Kandić, osservando con amarezza che l’attuale clima per la giustizia sui crimini di guerra è il “peggiore di sempre”.
Un altro processo che non si completa, e che a questo punto potrebbe non completarsi mai, è quello della riesumazione dei corpi nelle fosse comuni primarie, secondarie o terziarie. Delle 8.372 vittime sono circa 1.700 quelle i cui resti non sono stati ancora ritrovati. Non è una questione che riguarda solo Srebrenica: secondo i dati dell’Istituto persone scomparse della Bosnia Erzegovina (MPI) sono circa 7.000 i dispersi delle guerre del 1991-95 in tutta la Bosnia Erzegovina e 12.000 in tutta la ex-Jugoslavia. Le riesumazioni sono calate drasticamente negli ultimi anni, per tante ragioni: ci sono sempre meno testimoni, i documenti sono stati occultati o distrutti, le frane e alluvioni che a più riprese colpiscono la regione stanno cambiando la conformazione dei terreni. Anche per questo le ferite della memoria restano aperte.
Revisionismo
L’aspetto più preoccupante è quello del revisionismo sui fatti di Srebrenica, sempre più diffuso e consolidato da parte degli ambienti istituzionali, culturali e educativi della Republika Srpska, e che riceve legittimazioni dal clima internazionale. Un rapporto del Memoriale di Srebrenica-Potočari, pubblicato lo scorso maggio, ha esaminato con cura le tecniche di costruzione del discorso revisionista, dal tentativo di minimizzare i numeri degli uccisi al ribaltamento della ricostruzione storica, ovvero il descrivere la presa di Srebrenica del luglio 1995 come un’operazione di autodifesa e liberazione invece che un crimine contro l’umanità. A seconda delle necessità, quindi, si nega la legittimità delle prove oppure le si rivendica come atti giusti e necessari. Radovan Karadžić – a cui resta intitolato, dal 2016, il dormitorio universitario di Pale -, Ratko Mladić e gli altri vengono sempre più glorificati nel discorso pubblico come padri fondatori ed eroi civili dell’entità serbo-bosniaca.
Le straordinarie raccolte di testimonianze, documenti e ricostruzioni fattuali compiute dai tribunali e dalla società civile sono necessarie e preziose, ma non sufficienti. Serve un lavoro paziente nell’educazione e nella comunicazione, dove le ricadute della segregazione identitaria e dei discorsi d’odio sono gravi e durature. Lo scorso gennaio ha creato grande sensazione nella comunità locale il caso di una fotografia di alunni della scuola elementare di Srebrenica travestiti da combattenti cetnici – le milizie ultranazionaliste serbe della Seconda guerra mondiale, la cui simbologia fu riadottata negli anni Novanta – a cui non è seguita alcuna riflessione pubblica né espressioni di condanna da parte delle autorità cittadine.
Diversi analisti ricordano, tra gli eventi che hanno contribuito a relativizzare il genocidio, la consegna del Premio Nobel per la letteratura 2019 a Peter Handke. Le posizioni dello scrittore austriaco su Srebrenica e sull’intero conflitto in Bosnia Erzegovina sono apertamente negazioniste rispetto ai crimini di guerra e costituiscono parte integrante della sua produzione letteraria. Ma l’impressione è che una parte consistente del mondo intellettuale mondiale – e quello italiano non ha fatto eccezioni – le abbia trattate come opinioni legittime, o comunque di poco conto di fronte alle capacità attribuite all’autore di “esplorare la specificità dell’esperienza umana”, nelle discusse parole dell’Accademia di Svezia che gli sono valse il premio.
Tanta leggerezza sarebbe stata probabilmente impensabile anche solo pochi anni fa, quando le guerre jugoslave erano ancora memoria viva per società civili europee e occidentali. E questo preoccupa molti bosniaci solidali con la causa di Srebrenica, che hanno percepito il caso Handke come un segnale di oblio, persino di doppio standard del mondo occidentale rispetto ad altri crimini ed oppressioni che continuano a muovere e polarizzare le coscienze. I negazionisti locali invece hanno approfittato dell’occasione di legittimità, idolatrando Handke al punto di sostenere l’erezione di una sua statua a Banja Luka o nella stessa Srebrenica.
Saltare muri
Nei media e nello spazio pubblico, i pochi personaggi pubblici che criticano la visione conformista della “propria” parte diventano immediatamente oggetto di campagne di discredito sui social, attacchi ad personam sui media, pesanti pressioni sul lavoro e sulla sfera privata. È un fenomeno consolidato nella Republika Srpska, ma che avviene anche a Sarajevo, a Mostar e in tutta la Bosnia Erzegovina, a prescindere dall’appartenenza nazionale.
Le memorie e le sofferenze si usano come un martello per conservare lo status quo e perpetuare sistemi di potere attraverso differenze sociali e paure esistenziali, invece che come punto di partenza inevitabile per ripensare un futuro comune. Servono tanti “traditori della compattezza etnica” disposti a esplorare frontiere, saltare muri e costruire ponti di dialogo (secondo la celebre definizione di Alexander Langer rievocata in un recente dibattito dall’ambasciatore italiano a Sarajevo Nicola Minasi) per guardare al futuro. Un futuro che per tante ragioni – desertificazione produttiva, azzeramento della forza lavoro, isolamento geografico, emigrazione, spopolamento – appare sempre più difficile in questo pezzo di Bosnia, di Balcani, di Europa.