La notizia della morte di Santo mi raggiunse in un momento non semplice della mia vita. Era un’estate caldissima, come da tradizione, e dal punto di vista politico le cose proprio non andavano. La delusione era tanta, lo sconforto altrettanto, la paura per il futuro cominciava ad affacciarsi nella mente di molti e questo addio contribuì a rendere il clima ancora più fosco.
Ricordo ancora quel sabato ad Assisi, pochi mesi prima che se ne andasse, alla vigilia di una Perugia-Assisi che per Santo sarebbe stata l’ultima. Ricordo che raccontò a me, Vincenzo Vita e Giovanbattista Frontera della sua pancreatite: ci guardammo attoniti, lo fissammo in viso, osservammo il suo volto emaciato, la sua espressione sofferente e capimmo che, purtroppo, non si trattava di una semplice pancreatite. Restammo in silenzio: del resto, a cosa servono le parole in determinate circostanze?
Il 21 marzo 2015, in occasione della Giornata nazionale della memoria e dell’impegno contro le mafie, organizzata a Bologna da Libera del suo caro amico don Ciotti, Santo volle esserci. Stava già molto male ma la sua professionalità lo portò lì, col microfono in mano e la consueta determinazione.
A fine maggio lo vidi per l’ultima volta, durante una cena di Articolo 21. Gli chiesi come stesse, domanda retorica e della quale mi vergogno anche un po’, e Santo, con la sua disarmante ironia, mi rispose che era contento, essendo diventato presidente della Federazione Nazionale della Stampa, di essere finalmente tornato a lavorare. Quaranta giorni dopo non c’era più.
Ricordo sua moglie Teresa il giorno in cui mi recai alla camera ardente, allestita proprio nella sede dell’FNSI: la dignità, la fierezza, il coraggio.
Ricordo l’atmosfera straziante, il dolore che si percepiva su ogni volto, in ogni sguardo, la difficoltà di mantenersi “istituzionali” di fronte alla perdita di un amico, di un compagno, di un punto di riferimento.
Fino all’ultimo, Santo si è battuto in nome degli ultimi, dei deboli, dei giornalisti precari, dei poveri cristi che muoiono a Casale Monferrato a causa dell’Eternit, degli operai bruciati vivi alla ThyssenKrupp di Torino, contro le querele temerarie, le censure e i bavagli.
Ha vissuto l’intera vita dalla parte del prossimo e con il prossimo è sempre confrontato con civiltà e rispetto, senza mai alzare la voce ma senza nemmeno rinunciare a posizioni ferme e, quando era necessario, intransigenti.
Gli abbiamo voluto bene e non smetteremo mai di volergliene.
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