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“Non esistono le mie vittime e le tue, ma le nostre”. Giornata storica a Trieste a 100 anni dal rogo fascista del Narodni Dom

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Trieste come laboratorio politico privilegiato del Novecento: questo il quadro emerso dall’incontro tenutosi a Trieste presso il Teatro Miela lunedì 13 luglio, in occasione della presentazione del libro “Siamo stati fascisti” (Fondazione Feltrinelli, 2020), a cent’anni esatti dal rogo del Narodni Dom (conosciuto anche come l’incendio del Balkan), una delle micce che in un paio d’anni deflagreranno nella svolta autoritaria che diede avvio al Ventennio.

Dopo un breve saluto del presidente Carlo Feltrinelli, in apertura Massimiliano Tarantino, direttore della Fondazione editrice della pubblicazione, ha offerto una cronologia essenziale per inquadrare il periodo storico: tale calendario evidenzia l’escalation dell’aggressività fascista a partire dal II congresso nazionale dei Fasci di combattimento, che sposa un orientamento più a destra di quello che diventerà a breve il Partito Nazionale Fascista (PNF), abbandonando le venature antimonarchiche e anticlericali e che porterà a Trieste, nel gennaio del 1920, Francesco Giunta, nuovo leader del fascismo locale con l’obiettivo di attaccare i nuovi nemici, cioè i socialisti ed i nazionalisti slavi, sfruttando ogni episodio “sfavorevole” per aizzarvi contro la violenza squadrista, come per esempio l’uccisione del Capitano di corvetta Tommaso Gulli: l’episodio del Balkan è solo l’ultimo di una serie di attentati, che fino alla mezzanotte di quel giorno prenderanno di mira diverse attività gestite da cittadini di nazionalità slovena. In questo frangente, sottolinea Tarantino, anche la reazione dei socialisti è tiepida, dal momento che fino a quel momento loro stessi non erano stati direttamente attaccati; tuttavia, basterà poco, perché nell’ottobre dello stesso anno anche il Lavoratore, organo di stampa del partito, verrà preso d’assalto.

Chi vinse in quel contesto, si chiede Pierluigi Sabatti, presidente del Circolo della Stampa di Trieste e moderatore dell’incontro? La prima che prova a rispondere è Giulia Albanese, una delle autrici del libro, che evidenzia come in quegli anni violenza politica e violenza etnica si mescolarono ed il nuovo movimento, di lì a poco costituitosi in partito, cominciava a definire il proprio perimetro ideologico fatto di razzismo etnico (contro gli slavi, appunto) ed ideologico (contro i socialisti); l’Italia fascista si definirà attorno ad una nuova identità più omogenea che rifiuta le culture “altre”. Interviene poi Marta Verginella, storica dell’Università di Lubiana: per lei il Narodni Dom è solo uno dei centri della presenza slovena in città, che in quel momento reclama uno spazio più ampio, al di là della città giuliana. Tale presenza apparirà, secondo Raoul Pupo, storico dell’Università di Trieste, ingombrante a tal punto che i fascisti raccoglieranno solo gli umori di una parte consistente della città che stava diventando sempre di più slavofoba: l’incendio del popolo è solo l’epicentro di queste violenze che divampano sempre più forti in città; ciò che non tollerano i fascisti è la nuova pretesa della popolazione slovena di uscire da una secolare “inferiorità culturale” rispetto alla cultura italiana.

David Bidussa, altro autore del libro, spiega l’intento della pubblicazione, in una prospettiva di avvicinamento della storia contemporanea considerata una disciplina “per addetti ai lavori” verso un pubblico più popolare, soprattutto quello dei giovani studenti, ancora troppo distanti da un certo modo di trattare questa disciplina. Questo è dovuto, secondo Bidussa, anche al fatto che non siamo più in possesso di un calendario civile, come un tempo: non importa che valore avessero quelle date, però fondavano un cosiddetto “tempo collettivo” che ora non c’è più. In questo calendario potranno avere spazio due episodi importanti per questa città come il 13 luglio e il 18 settembre (annuncio delle leggi razziali). Poi non basta dire ai giovani “Studiate la storia”, ma è importante riaccendere in loro la voglia di sapere di più del proprio passato. Di questi giovani parla anche Anna Granata dell’Università di Torino, collegata in videoconferenza, che invita ad una “narrazione comune” come sfida pedagogica, mischiando la Storia con la S maiuscola ad altre storie, come per esempio anche quelle dei giovani migranti che approdano nel nostro Paese, affinché questi ragazzi, sia italiani che stranieri, non si sentano più esclusi e fuori dal coro. Sulla stessa scia c’è il tentativo che la professoressa Sabrina Benussi, docente di Filosofia e Storia presso il Liceo Petrarca, fa quotidianamente, e cioè cercare di formare una nuova coscienza storica negli studenti, rendendoli protagonisti attraverso percorsi diversi dalla tradizionale lezione frontale, come la ricerca d’archivio, la costruzione di materiale multimediale ed eventuali contatti con i testimoni ove ancora possibile; prova ne è stata, per esempio, la mostra sulle leggi razziali. Agli studenti, secondo Benussi, andrebbe detto che la storia non ha un codice binario, ma è sempre “complessa”. In cantiere c’è ora un progetto che mira a far emergere la storia degli avvocati ebrei espulsi durante il regime.

In conclusione il moderatore si è chiesto se Trieste è ancora un simbolo. Mentre Giulia Albanese ha ricordato come una tappa importante questa restituzione alla comunità slovena del Narodni Dom, Marta Verginella ha sottolineato l’incapacità, almeno in questo territorio, di parlare secondo una “cittadinanza europea”, rammentando la scarsa sperimentazione di una didattica transfrontaliera, possibile invece in altre zone sia nel nostro Paese (Alto Adige) che in altre zone del continente (tra Francia e Germania, per esempio). Raoul Pupo, infine, ha concordato sull’impossibilità di parlare di “memoria condivisa”, si può solo parlare di memorie che si rispettano, ma rivela di essersi commosso di fronte alle immagini del presidente Mattarella mano nella mano col suo omologo sloveno presso la foiba di Basovizza: non esistono le mie vittime e le tue, bensì le nostre.


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