È proprio tutto sbagliato, tutto contrario al buon senso, all’educazione, alla sensibilità, alla logica. Già, basterebbe poco e invece la pandemia di questo inizio di ventunesimo secolo si conferma essere la rabbia, e ancora non c’è traccia di vaccino. La rabbia, il tutti contro tutti, l’egoismo sfrenato, la prepotenza e l’arroganza sono la punta di un iceberg di un profondo disagio sociale che si è manifestato di nuovo, qualche giorno fa, con l’aggressione verbale e fisica a Beatrice Ion, atleta della nazionale italiana di basket paralimpico, e a suo padre, finito all’ospedale con il setto nasale rotto. Ci si dovrebbe interrogare se siano peggio un’aggressione a sfondo razzista (conseguenza delle origini romene di una ragazza di 22 anni che da 16 vive nel nostro Paese, ha fatto tutte le scuole in Italia, ha la cittadinanza italiana e indossa nel suo sport la maglia azzurra), gli insulti a una ragazza disabile, le battute sessiste o una testata sul naso. Qualcuno se la sente di scegliere? Non credo, così come non entro neppure nell’analisi del fatto che ha scatenato tutto (una discussione per il diritto a parcheggiare nel posto riservato ai disabili), perché il problema è altrove. Quanto successo è la sintesi perfetta dell’idiozia e dell’arroganza di chi, per qualche incomprensibile ragione, si sente migliore. Migliore nella condizione fisica, migliore nella razza, migliore nell’uso della forza, migliore nel diritto di avere diritti, migliore perfino nell’esercizio della prepotenza.
Beatrice, comprensibilmente scossa, ha avuto la forza di invitare l’aggressore a vergognarsi, ma ancora di più la lucidità di dichiarare: «Chi ha guardato tutto senza alzare un dito o dire nulla si dovrebbe vergognare ancora di più». Eh sì, ha proprio ragione. Perché se mai si scoprirà un vaccino capace di vincere questo virus della rabbia, ci accorgeremo che quel vaccino non possiamo che essere tutti noi che, normalmente, guardiamo. Il vero problema non è un singolo delinquente che urla davanti ai carabinieri: “Ho un curriculum criminale!”, come se fosse un valore aggiunto. Il vero problema siamo noi, maggioranza silenziosa che non può proprio più stare zitta e che deve comprendere che in questo teatro dell’assurdo siamo tutti ugualmente responsabili: attori e spettatori.
Qualche anno fa ho conosciuto la meravigliosa esperienza del Teatro Povero di Monticchiello, un progetto culturale nato negli anni 60, in provincia di Siena. È un borgo medievale dove vivono duecento persone che diventano tutti autori e attori di uno spettacolo teatrale che si svolge in estate, nella piazza del borgo, da oltre cinquanta anni. Tutti gli abitanti sono coinvolti nella drammaturgia, nella regia, nella recitazione. Tutti fanno qualcosa, tutti sono protagonisti di un ruolo. Giorgio Strehler definì questa esperienza teatrale autodramma, definizione fatta propria dalla “compagnia” che da anni usa, come sottotitolo dei suoi spettacoli, la formula: “Autodramma ideato, scritto e realizzato dalla gente di Monticchiello”.
Ecco, dovremmo trovare un modo per diventare protagonisti di un autodramma. Gli idioti resteranno idioti, i violenti resteranno violenti, i razzisti resteranno razzisti. Tuttavia, se saranno inseriti in un contesto dove tutti gli altri interpreteranno con convinzione la propria parte, la qualità dello spettacolo sarà senza dubbio migliore e, soprattutto, si ricostruirà un senso di comunità.
Invece, quello visto da Beatrice è stato uno spettacolo indecente, per colpa di uno squallido protagonista e soprattutto di tanti spettatori rimasti zitti a guardare.
Dobbiamo delle scuse e, soprattutto, una dichiarazione di impegno: a lei e al suo Paese. Che poi è il nostro.
*Per gentile concessione dell’autore Mauro Berruto, di Avvenire e del direttore Marco Tarquinio