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Metro, il giornale dei lettori nuovi, 20 anni dopo, cerca la sua seconda rivoluzione

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di GIAMPAOLO ROIDI*

Il 3 luglio di 20 anni fa – era un lunedì – ci fu in Italia una piccola rivoluzione nel mondo dei giornali. Sbarcò a Roma – e dopo tre mesi a Milano – Metro, quotidiano fondato cinque anni prima da un gruppo di giornalisti svedesi e già distribuito con un certo successo in alcuni Paesi del nord Europa da una società editrice controllata dal colosso Kinnnevik. Metro non sbarcò in edicola, ma nelle stazioni della metropolitana, consegnato a mano da centinaia di ‘strilloni’ ai pendolari che aspettavano i treni sulle linee A e B. Metro era gratuito e dimostrò che si poteva realizzare un quotidiano cartaceo ad altissima tiratura, completo, malgrado le poche pagine. E regalarlo. Venne così allo scoperto in una manciata di settimane un pubblico di lettori nuovo, non intercettato dalla grande stampa a pagamento, un pubblico capace di leggere fino all’ultimo tamburino durante il tragitto di un autobus o di un treno. Il costo di quella informazione e di quel giornalismo lo pagavano e lo avrebbero pagato negli anni a venire gli inserzionisti pubblicitari, ben felici di aver trovato un mezzo ‘smart’, amato dal popolo dei mezzi pubblici e dai frequentatori di bar, che in edicola a comprare Il Messaggero o Repubblica ci andavano ogni morte di papa o la volta che una squadra romana vinceva lo scudetto.

Il colpo d’occhio, a scendere una scala mobile a Termini o a Ottaviano, era emozionante: centinaia, migliaia di persone con Metro in mano, felici di aver trovato un giornale ‘facile’, che si poteva leggere in un quarto d’ora persino in piedi e attaccati ad un corrimano di un vagone: Metro aveva il punto metallico al centro come le riviste e le pagine non ti cadevano al primo sfoglio. Tutto a colori, un direttore brillante (Fabrizio Paladini), persino qualche grande firma, e tutto gratis. Una pacchia. O un incubo, per i grandi editori, che prima tentarono di bloccare quei corsari svedesi con improbabili denunce alla magistratura (concorrenza sleale, l’ipotesi di reato), poi capirono che Metro aveva trovato un pubblico ‘addizionale’, mediamente più giovane, ma non più povero (la bufala che lo leggevano solo gli immigrati fu però dura a morire) e che i loro stessi inserzionisti non disdegnavano per nulla di finire sotto quella testata verde con il logo stilizzato del mondo al posto della O di Metro.

CERTIFICAZIONE AUDIPRESS

Meno di un anno e il Gruppo Caltagirone lanciò Leggo, poi arrivarono City di Rcs, 24 Minuti del Sole 24 Ore, emuli locali o ultralocali. Niki Grauso dalla sua Cagliari lanciò E-Polis, che poi sbarcò in ‘continente’ con decine di edizioni. La rivoluzione sì consolidò nel 2005 quando Metro – dopo una lunga battaglia all’antitrust – riuscì ad ottenere la certificazione dei lettori da Audipress: si scoprì allora che milioni di italiani leggevano soltanto la free press e che tutto sommato i quotidiani a pagamento non avevano subìto una particolare emorragia di copie. Anzi. Quelli di Metro e i suoi fratelli erano lettori diversi, aggiuntivi, più legati a consumi informativi televisivi. Chi comprava copie in edicola aveva continuato a farlo. Metro aveva iniziato alla lettura del giornale del mattino milioni di futuri lettori di giornali a pagamento. Viva Metro, viva la free press. L’Italia aveva finalmente trovato il modello di quotidiano popolare di massa da sempre sognato e progettato da grandi direttori. Solo che era gratuito e non aveva colore politico. Non doveva averne, pena la perdita di una fetta consistente di pubblico e un giornale gratuito sta in piedi soltanto se lo leggono in tanti, la pubblicità i conti sui ritorni degli investimenti li sa fare bene. Negli anni tra il 2006 e il 2009 Audipress certificò che Metro, per numero di lettori, era uno dei primi dieci giornali italiani più letti, grazie alle sue 4, poi 6, poi 8 edizioni in altrettante città.

Quella che è seguita è la storia di una crisi economica globale innescata nel 2008 negli Stati Uniti, crisi che non ha risparmiato il mercato della pubblicità, ovviamente non soltanto in Italia. Gli investimenti sulla carta stampata sono progressivamente calati, complice anche l’affermazione definitiva di Internet e – nell’ultimo lustro – dei social network. I padroni mondiali del digitale sono diventati i nuovi dittatori della comunicazione e dunque dell’advertising. La disintermediazione che ha colpito i media tradizionali ha riguardato anche la catena di trasmissione degli investimenti pubblicitari che da sempre ha tenuto in piedi quotidiani e riviste. Veniamo da dieci anni atroci, la lista delle redazioni che ogni giorno si arrendono e cessano le pubblicazioni è sempre più lunga e le misure di contenimento e supporto messe in piedi dalle istituzioni si è rivelata per ora del tutto insufficiente. Per restare a Metro: nel 2010 c’erano in Italia 6 quotidiani gratuiti con tirature importanti, oggi sono rimasti in due, Metro e Leggo, ma le copie distribuite sono molto calate. Il costo di questi storici giornali popolari non è più sostenibile dalla sola pubblicità. Bisogna reinventare quel modello, serve una nuova rivoluzione.

TRE MESI DI SOSPENSIONE

Da qualche giorno Metro è tornato in distribuzione dopo tre mesi di sospensione. La chiusura delle stazioni della metropolitana e il lockdown hanno fatto precipitare la raccolta pubblicitaria e all’editore non è rimasta altra scelta. Dopo 11 anni e una lunghissima crisi aziendale, Mario Farina (che subentrò a Metro International nell’agosto del 2009 per l’edizione italiana del giornale) si è arreso e ha venduto la testata, ritenendo non più sostenibile l’attività. Ha rilevato Paola Garagozzo, alla sua prima esperienza nella gestione di quotidiani e molti si chiedono se sia attrezzata per superare la bufera e rilanciare la scommessa. A lei il compito di trovare un modello economico che possa fare a meno di budget pubblicitari milionari e di dare un futuro a un giornale che non è stato soltanto un ‘gratuito’, in questi 20 anni, ma un foglio libero e indipendente (anche dalla pubblicità), un giornale che non ha mai difeso gli interessi di partiti o gruppi economici che non fossero quelli di un editore svedese (il più ‘globale’ tra gli editori di giornali gratuiti del mondo), nei primi 10 anni, e di uno stampatore romano nei secondi dieci. Un giornale capace di interessare e ‘fidelizzare’ un pubblico nuovo, giovane, appassionato ai grandi temi del lavoro, dell’ambiente, della giustizia, e di farlo grazie a una formula giornalistica apprezzata in quattro continenti da decine di milioni di persone. Metro è stato il primo tra i gratuiti ed è rimasto unico tra i quotidiani italiani per connotati editoriali. Una generazione di lettori è nata e cresciuta con le sue pagine di notizie brevi e talvolta esclusive. Una generazione che oggi va coinvolta in un cambiamento che appare forse inevitabile, a cominciare da una presenza finalmente convincente e aggiornata sulla rete.

Il 3 luglio del 2000 non esistevano i social e gli smartphone, i cellulari al massimo mandavano sms (solo un modello aveva la fotocamera), nelle stazioni e in quasi tutti i locali non esisteva il wifi, il primo tablet di nuova generazione arrivò soltanto sei anni dopo. Oggi quegli stessi lettori si informano in maniera molto diversa da allora, su supporti digitali, in momenti della giornata che non sono la mattina mentre aspettano il metrò. Lettori minacciati in ogni momento dalle notizie false e dalla superpresenza di ‘influencer’ politici e commerciali sulle piattaforme digitali. Lettori forse più disponibili di vent’anni fa a sostenere un’informazione libera e indipendente, corretta e curiosa, magari veicolata da una app di un brand storico e affidabile. Metro non avrà mai un prezzo stampato in prima pagina, ma dovrà trovare sostegno e supporto per le proprie iniziative, i propri eventi e le proprie campagne, sfruttando il crowdfunding su singoli progetti e la collaborazione di associazioni impegnate nel sociale, persino di quelle aziende pubbliche e private coinvolte nello sviluppo della mobilità sostenibile che hanno visto in Metro un alleato convinto e visionario, in questi vent’anni. Il giornalismo indipendente e di qualità ha un costo (ce l’ha sempre avuto) e Metro dovrà trovare nuove risorse e nuovi canali per sostenerlo, come all’inizio di questo millennio seppe fare con la pubblicità. Smettendo di aspettare che passi la nottata. I tempi d’oro e delle tirature a 6 zeri non torneranno più, folle illudersi del contrario, impraticabile rinunciare seriamente a seguire i lettori dove i lettori stanno, sulla rete e sui social. Bisogna provare fare sistema con la propria community e smetterla di ‘tagliare’ giornalisti e collaboratori, che sono l’unico, vero patrimonio di un giornale. Metro ha sempre avuto l’innovazione nel proprio dna e saprà fare tesoro anche degli errori commessi per tornare a crescere e, se possibile, a distribuire gratuitamente copie in un metrò. Questo il mio augurio personale al nuovo editore, che immagino animato dai migliori progetti, e ai giornalisti che anche in questi ultimi mesi bui non hanno mai smesso di lottare, mettendo sul tavolo professionalità, passione e l’ennesimo pezzo di stipendio. Per dare a Metro e a se stessi un futuro sostenibile. Buon compleanno e buona fortuna.

*Giampaolo Roidi ha lavorato a Metro dal primo giorno, per 16 anni. Per 12 è stato direttore. Dal 2017 è un giornalista dell’Agenzia Italia.

Da professionereporter

 

 


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