Sono trascorsi 2 anni da quando il Messico si è gettato nelle braccia di Andrés Manuel Lopez Obrador come un Gesù flagellato nelle braccia della madre Maria. La chiamata del popolo ad AMLO andò ben oltre l’elezione a capo dello stato (i suoi votanti colmarono d’entusiasmo le strade non meno delle urne, con un atto senza precedenti 68 capi delle nazioni indigene del paese più indigeno d’America gli consegnarono il bastone del comando): fu l’incarnazione di una speranza impossibile da rinviare, lo strumento d’una redenzione morale e materiale dal continuo degrado della Repubblica e dalle atroci violenze del narcotraffico, l’assoluto bisogno d’un miracolo. Con la calma che mantiene anche quando è emozionato, lui confermò che avrebbe combattuto la corruzione, portato lo stato sociale, pacificato il paese. Ripetette: “La nostra impazienza è giustizia”.
Pur marcata da un tenace personalismo non privo di toni agiografici, la lunga biografia politica di AMLO, 67, accredita il suo populismo sociale e democratico, anti-casta, che il contesto messicano non vede come un ossimoro. Siamo nel paese in cui ha dominato per decenni e fino a ieri un partito conservatore gravemente corrotto denominato Partito Rivoluzionario Istituzionale (PRI). “Insieme faremo la Storia”, la coalizione che sostiene il governo, non rifugge a sua volta dalla solennità nominalistica. Ma ha conquistato una robusta maggioranza in entrambe le camere del Congresso nazionale. Quindi gli garantisce la potestà legislativa. Ben altra tragica gravità e urgenza ha la continua violazione dei diritti umani, in una terra che nondimeno mantiene la nobile tradizione dell’asilo politico ai perseguitati d’ogni parte del mondo.
Oggi, però, il Messico di AMLO si vede ripiegare su se stesso, nell’affanno di afferrare una sopravvivenza pur che sia, contro le avversità che minacciano di soffocarne l’anelito. E una parte del paese reagisce, credendo di scorgere nel pragmatismo del Presidente tracce di solipsismo che possono perderlo nello sterile opportunismo. Dopo l’incertezza non priva di complice fatalismo con cui ha arretrato di fronte all’aggressione del coronavirus e ora ne governa le conseguenze in parte nascoste, si appresta ad andare in visita di stato a Washington, invitato da Donald Trump, dalla cui capricciosa potenza più che mai dipende. Ma con il quale inevitabili contrasti sono sfociati in uno scambio di ingiurie che ha alimentato una rissa verbale difficile da dimenticare. Questa che il presidente considera real–politik, tesa a consolidare gli indispensabili accordi commerciali faticosamente raggiunti con l’ineludibile vicino, vengono letti invece come una dannosa ingenuità.
Gli ricordano che Donald Trump non lo avrebbe chiamato se non lo avesse ritenuto vantaggioso per sé, vale a dire per la sua campagna elettorale, su cui concentra interamente attenzione e interesse (come scrive anche l’ex assistente del presidente John Bolton, nelle memorie al vetriolo dalla Casa Bianca). Gli predicono che Trump parlerà esclusivamente di ciò che potrà favorirgli il decisivo voto dei latinos, tra i quali prevale quello dei milioni di messicani che vivono tra la California e il Massachusetts, che le sue eventuali promesse non hanno alcuna garanzia. Non si illuda, lo ammonisce Jorge Ramos dalle colonne del New York Times, di poter imporre al presidente degli Stati Uniti l’autocompiacente pedagogia ch’egli dispensa nelle consuete conferenze stampa a Città del Messico. Tanto meno -sottolinea- con il suo inglese scarsamente fluently. AMLO, però, non si scompone e mostra di vederla diversamente.
C’è un Messico oppresso e dolente che con fierezza non si illude né si rassegna. Sono familiari e amici dei 43 studenti di Ayotzinapa scomparsi ormai da anni e con ogni probabilità orribilmente trucidati dalle complicità di narcotrafficanti e pezzi dello stato, uno stato assente mentre tante donne erano assassinate solo perché donne e indifese, immemore del centinaio di giornalisti ammazzati per le loro denunce. La scrittrice e giornalista di origine polacco-francese Elena Poniatowska, testimone della matanza di plaza Tlatelolco, 1968, e delle menzogne dell’allora presidente Diaz Ordaz, ne interpreta il pensiero: AMLO ha la sua sensibilità, non la mia; ma ha ricevuto una eredità disastrosa, non vogliamo che sia spinto al naufragio, il suo governo è insostituibile tanto quanto il nostro sostegno, che è fatto di idee, stimoli, verifiche; non siamo un corpo mistico, siamo la parte più viva e consapevole di questo magnifico paese che da decenni mi ospita.
Lopez Obrador ha dovuto metabolizzare colpi che avrebbero schiantato un campione di kick–boxing. Mentre ancora sventolava la bandiera umanitaria dell’emigrazione, Trump gli ha opposto la costruzione del muro, cui ha aggiunto l’umiliante pretesa che dovevano essere i messicani a pagarlo, configurando la situazione del condannato a morte costretto a scavarsi la propria fossa. Nell’ottobre 2019 irrompe sulla scena l’altro Messico, la sua anima perversa. A Culiacàn, Sinaloa, in un’operazione-lampo corpi speciali dell’esercito e della polizia catturano Ovidio Guzman, il figlio del Chapo. Justice Department e DEA ritengono che abbia sostituito il padre ai vertici del narcotraffico e ne pretendono l’estradizione. Ma centinaia di armati del suo cartel de Sinaloa circondano la cittadina al confine occidentale con California e Arizona, cominciano a incendiare automobili e commerci, minacciano di farne un solo rogo se l’arrestato non viene d’immediato rimesso in libertà.
La battaglia campale necessaria per respingerli causerebbe migliaia di morti innocenti, distruzioni smisurate, una tragedia umana politicamente insostenibile. Per il governo implicherebbe l’avvio di una guerra in campo aperto contro il narcotraffico. Un fiat justitia pereat mundus che AMLO non può e non vuole affrontare. Neppure da Washington osano sollecitarla. E’ costretto a subire il ricatto. Ratificando una cessione di autorità su parte del territorio nazionale. Quasi il pubblico riconoscimento di una situazione di fatto a cui i suoi predecessori si erano sottratti fingendo di ignorare le infiltrazioni del potere dei narcos e così favorendone l’ulteriore espansione. E’ la più clamorosa, non certo l’unica e drammatica contraddizione che la grande criminalità organizzata riesce a imporre a uno stato moderno, nella forma solo parzialmente latente d’una schizofrenia sociale e giuridica.
Neppure la superba tradizione culturale del Messico, la sua ricchissima letteratura sempre immersa nella complessità dell’irrisolta storia nazionale, riescono a suggerire una coerente via d’uscita da questo labirinto infetto, al cui confronto perfino il Covid appare un male minore. Pur nell’evidenza di tutti i suoi limiti, il relativismo di Lopez Obrador diventa dunque un’espressione comprensibile nella logica rovesciata d’una politica in cui la strategia è costretta a subordinarsi alla tattica. Il populismo intriso di cristianesimo contadino di AMLO, non-violento ed ecologista come nel suo prediletto Leon Tolstoi, agisce con movimenti estemporanei tali da apparire spesso erratici. Procede a vista nelle tenebre di quel Messico occulto nelle trame del potere, che lui conosce come pochi altri politici del grande paese latinoamericano. Con il rischio tanto palese quanto inevitabile che le sue promesse rimangano solo buoni proponimenti.