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Locke di Filippo Dini al Franco Parenti di Milano: l’inattualità di un bene ancora possibile

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Milano, Teatro Franco Parenti – Un unico pensiero capace di stravolgere le certezze della vita di un uomo apparentemente banale come Ivan Locke, capocantiere e padre di famiglia: fare la cosa giusta. Primum non nocere, innanzitutto non arrecare danno, non ferire, o semplicemente fare del bene ed evitare il male – è la sostanza del giuramento ippocratico, ma anche il principio etico di questo insolito e inattuale eroe dei nostri giorni interpretato in maniera impeccabile da Filippo Dini. L’attore e regista ha presentato in prima nazionale al Teatro Franco Parenti di Milano il suo adattamento per il teatro della sceneggiatura di Steven Knight, che nel 2013 ebbe un notevole successo cinematografico nell’interpretazione di Tom Hardy.

Uno spettacolo minimalista ma dall’ampio respiro (dura circa 90 minuti): un unico attore, il volante della macchina, la strada, luci, suoni e tante voci che arrivano dal vivavoce di un cellulare che non smette mai di squillare, creano un’atmosfera credibile, nella quale si scivola come in un sogno che potrebbe anche diventare un incubo. Bisognerà attendere la fine per capire quale destinazione toccherà in sorte al guidatore.

Un uomo solo nell’abitacolo di un’auto che si allarga a tutta la platea, incalzato da un cellulare che diventa il suo cordone ombelicale con il mondo – mentre un altro cordone ombelicale rischia di strangolare un bambino che sta per nascere – potrebbe anche essere la metafora ideale di una fuga epocale dalla realtà, dalle evidenze, dalle responsabilità. In fondo, è ciò a cui tutti, in misura maggiore o minore, ci siamo da tanto tempo ormai assuefatti. E invece no. Ivan Locke non sta scappando come aveva fatto suo padre che lo aveva abbandonato, preferendogli l’alcol e la droga. A questi, che ormai non poteva più né nuocere né fare il bene, Ivan si rivolge con un accanimento inscalfibile: «guarda e impara!». E davvero Ivan non permette che la minima crepa intacchi i suoi edifici: quelli che gli avevano fatto guadagnare la reputazione di miglior capocantiere dell’Inghilterra e quello della sua esistenza. Stessa saldezza derivante da un profondo e quanto mai inatteso senso di probità.

Ivan Locke non fa riferimento a parole e concetti grevi come ‘amore’, ‘destino’, o ‘morale’. Al suo braccio destro urla di farsi mandare solo cemento contrassegnato dal codice C6, altrimenti la più grande colata di calcestruzzo dell’edilizia urbana londinese sarebbe andata a monte: fai un piccolo errore e tutto il mondo ti crolla addosso, sembra essere il leitmotiv di questo viaggio in una notte che sembra infinita. Locke è istintivamente un uomo buono e giusto. La sua è un’etica spontanea, non certamente appresa riflettendo sull’imperativo morale kantiano e non ha niente a che vedere né con i Vangeli né con il karma. Il suo principio guida è che si possa sempre operare il bene, qualsiasi cosa accada. Alla banalità del male (l’indifferenza, l’egoismo) contrappone la caparbietà del bene (tradotta in attenzione e presenza). È un uomo inattuale proprio perché decide di mettere a rischio le fondamenta stesse della sua serena vita borghese (il lavoro, la famiglia) in nome di una rettitudine che non trova una spiegazione socialmente accettabile. Anzi, se avesse deciso di voltare le spalle, di far finta di non vedere, si sarebbe comportato in linea con ciò che al giorno d’oggi è prassi generalizzata e del tutto irriflessa. Lui che vive e prospera in un ambiente duro e rapace com’è quello dell’edilizia, lui che è del tutto estraneo ai raffinati interessi della donna che sta per partorire suo figlio (lei stessa si meraviglia di essersi innamorata di un uomo che non aveva mai letto Aspettando Godot), è l’unica persona capace di vedere e di comprendere che si deve fare la cosa giusta. Quest’uomo in fondo rozzo, che era solito lasciare impronte di cemento sull’impiantito della cucina e che, dopo estenuanti giornate di lavoro sul cantiere tornava a casa per godersi la partita consumando birra e salsicce, diventa all’improvviso colui che reca felicità e consolazione a una donna fragile, una naufraga che nessuno si sarebbe mai sognato di soccorrere. Sta tutta qui la ragione dell’anacronismo di questo personaggio, in questa sua umanità semplice e abissale: aveva visto una donna sola, infelice, che aveva perso la voglia di vivere e ciò gli era dispiaciuto. È, in fondo, la storia di uno di quegli esseri umani in via di estinzione che hanno conservato intatta la capacità di vedere e di soccorrere l’Altro.

 

Locke

7 – 12 Luglio 2020

uno spettacolo diretto e interpretato da Filippo Dini

e le voci al telefono sono di (in ordine di apparizione):

interpreti – personaggi

Sara Bertelà – Bethan

Eva Cambiale – Moglie di Gareth

Alberto Astorri – Donal

Emilia Piz – Lisa

Iacopo Ferro – Sean

Mattia Fabris – Gareth

Mariangela Granelli – Katrina

Valentina Cenni – Sorella Margareth

Carlo Orlando – Davids

Giampiero Rappa – Dottor Gullu

Fabrizio Coniglio – Cassidy

 

scene e costumi Laura Benzi

luci Pasquale Mari

colonna sonora Michele Fiori (sistema audio in olofonia “HOLOS”)

regia del suono David Barittoni

aiuto regia Carlo Orlando

 

pittore scenografo Eugenio De Curtis

direttore di scena Riccardo Scanarotti

elettricista Gianni Gajardo

sarta Caterina Airoldi

 

produzione Teatro Franco Parenti/ Teatro Stabile del Friuli Venezia Giulia/ Teatro Stabile di Torino – Teatro Nazionale


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