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L’incubo della realtà. ‘A proposito di niente’ di Woody Allen, ed. La Nave di Teseo

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Ero sano, benvoluto atletico; […] eppure non si sa come sono riuscito a diventare un nevrotico pieno di fobie e dalla vita emotiva disastrata, sempre sul punto di perdere l’autocontrollo, un misantropo solitario e claustrofobico inacidito, impeccabilmente pessimista.

Woody Allen

Leggere Woody Allen ti fa venire immediatamente voglia di scrivere. E’ una specie di riflesso pavloviano ma al posto della lampadina rossa ci sono le pagine del libro di un genio. L’aggravante è che, ispirato, ti senti di farlo scimmiottando il suo stile chiaro e discorsivo – lui, Woody Allen al contrario, sa benissimo di non essere né Čechov né Tennessee Williams – e di conseguenza questo dovrebbe capirlo pure chi si azzardi a recensire (si dice così ormai a proposito del Catalogo delle Figurine dei Calciatori) “A proposito di niente”, la sua autobiography (mettere un paio di parole inglesi sembrerebbe alzare il livello della scrittura) appena pubblicata da La Nave di Teseo. Non staremo certo qui a raccontare come la casa editrice guidata da quel folletto di Elisabetta Sgarbi sia riuscita ad acquisirne i diritti per la pubblicazione in Italia: sarebbe un remake di Intrigo internazionale senza Cary Grant che è uno degli attori-icona di Woody Allen.

Ma dopo la chiusura totale per il Covid 19 (lockdown lo usano ormai pure nei tg regionali e quindi è da escludere) avere tra le mani quelle trecentonovantotto pagine mi è sembrato una gentilezza dell’universo e in particolare del signor Allan Steward Konigsberg che non mi conosce, che non leggerà mai questa recensione e che non sarà mai sfiorato dalla nostra esistenza, al contrario degli operatori telefonici che continuano a offrirmi affettatrici miracolose, abbonamenti a pay-tv e assicurazioni sulla vita. Lo so, mi sto facendo prendere la mano. E non è tanto una questione di stile, quanto di contenuti. Insomma, voglio dire che quando leggi “A proposito di niente” hai l’impressione di essere rimasto seduto per un tempo infinito con il signor Allen (un bar dell’Upper Side sotto l’ombra di alberi altissimi, a gustare ali di pollo come sarebbe piaciuto a lui?) e sentirlo chiacchierare di una vita – la sua – sognata e trasformata in realtà.

Anche se – a suo dire – proprio la realtà è il suo incubo peggiore: di fronte ad essa non possiede  “meccanismi di difesa”. Questa autobiografia in realtà è il romanzo della sua vita, costellata da alcuni assiomi: l’amore sterminato per il cinema, il rapporto anti-ortodosso con l’ebraismo, la passione disperata per le proprie illusioni.

L’incipit è già una folgorazione che annulla tutti gli stereotipi del genere: “Come il giovane Holden, non mi va di dilungarmi in tutte quelle stronzate alla David Copperfield…” E l’insurrezione nei confronti della biografia stereotipata  – ovvero “l’autobiografia di un misantropo ignorante e patito di gangster” – si consuma per quasi tutto il libro per straniamento, per grottesca visione del mondo, per rovesciamento della logica comune. Scrive, per esempio, a proposito dei genitori: “Due persone che non c’entravano niente una con l’altra come il protagonista di Bulli e pupe e Annah Arendt.” Dall’infanzia felice e spensierata in cui nutre il sogno di diventare un illusionista (in effetti lo è diventato davvero)  ad una adolescenza nutrita solo di fumetti. Già, i libri – quelli che leggevano soprattutto le ragazze con cui sarebbe voluto uscire – non gli piacciono: meglio la radio e i film con Bogart e Cagney, visti insieme alla leggendaria cugina Rita, le champagne comedies (sfarzo, eleganza, cocktail e attici di lusso), il baseball, qualche catasta di Playboy. E il jazz soprattutto, anche nella forma di clarinettista. Le premesse “per diventare un buzzurro” ci sono tutte. Dagli show radiofonici e televisivi al grande amore del cinema: ma non solo il suo. Quello degli anni ‘40 e ’50 (Un tram che si chiama desiderio di Elia Kazan rimane il suo film preferito, “l’apice della perfezione artistica”), insieme a tutta una folla di personaggi: amici, fidanzate, produttori, attrici, attori, direttori della fotografia (bastano poche righe per tratteggiarne un ritratto pieno e corposo) che hanno gravitato nel suo mondo e che hanno lasciato in lui una traccia: e tra questi, il racconto della chiacchierata al telefono con Fellini  è davvero una chicca. Ma le riflessioni più appassionanti riguardano il rapporto personale di Allen con l’arte e specialmente il suo disincanto: “Il narcisismo è una trappola. Il divertimento sta nel lavoro, il giudizio degli altri non conta, è una perdita di tempo”.

Insomma per parlare accuratamente di questo libro, che contiene tanti piccoli universi uno dentro l’altro, bisognerebbe riscriverlo: ed è una perdita di tempo che risparmiamo a noi stessi e soprattutto ai lettori di queste quattro righe che tentano di farsi passare per recensione.

Più di tutto però colpisce e sorprende l’atmosfera cupamente kafkiana, quasi da malinconica commedia felliniana (Ombre e nebbia, forse?) delle tante pagine dedicate al rapporto con Mia Farrow – che Allen ha sempre considerato una grandissima interprete – e alle denunce di molestie (totalmente infondate anche secondo la giustizia americana) che secondo l’attrice Allen avrebbe mosso nei confronti della figlia adottiva  Soon-yi e che adesso è sua moglie. Sono pagine amare: la dolentissima ferita delle polemiche, delle accuse e della lunga vicenda personale e giudiziaria è ancora viva e aperta. Pagine che stridono un po’ con l’atmosfera simpatica, sorniona e trasognata del resto dell’autobiografia in cui tenta di allontanare l’opinione che lo dipinge come un intellettuale di altissimo livello: è solo grazie all’utilizzo strategico – precisa – degli occhiali con la montatura nera: il marchio di una intelligenza unica, che tenta di dimostrare di “non essere Ingmar Bergman” e di essere, come regista, “un imperfezionista”. Per uno che a ottantaquattro anni si considera “a metà della mia vita” che volete di più?

Woody Allen, A proposito di niente – Autobiografia, La Nave di Teseo, 2020 euro 22,00


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