Colleghi, colleghe, vi scrivo queste righe con l’empatia di chi ha passato quello che state passando voi nelle ultime ore e negli ultimi anni di precariato giornalistico.
Vi scrivo con il cuore, vi chiedo di ragionare con la testa.
Il primo dei tre giorni di sciopero dei collaboratori de Il Messaggero se n’è andato.
Ieri, 9 luglio, con tutte le difficoltà del momento, alla fine di un percorso aperto, trasparente, democratico e condiviso l’Assemblea di settanta colleghi del Messaggero ha deliberato di compiere l’atto più estremo, coraggioso e nello stesso tempo naturale che si possa fare quando si sentono calpestati i propri diritti e la propria dignità di lavoratore onesto: SCIOPERO.
Non è una parolaccia, è nella Costituzione.
So di colleghi redattori, caporedattori e non solo – evidentemente malinformati o in malafede – vi hanno detto che voi, noi giornalisti precari non abbiamo il diritto di fare sciopero “perché siamo formalmente lavoratori autonomi”. Esattamente: lo siamo solo sulla carta, autonomi.
Il diritto di sciopero nel nostro Paese è garantito a tutti i lavoratori, dipendenti e precari; tutelati e freelance, e un giornalista dovrebbe saperlo.
Il nostro diritto di sciopero porta con sé le tutele conseguenti – e i rischi, deontologici e amministrativi del sabotaggio di questo diritto.
Per esempio, non possono essere sostituiti i giornalisti collaboratori in sciopero. Il caporedattore che manda a coprire un servizio di un collega in sciopero da un altro collega che ha dato la disponibilità si espone a deferimenti all’Ordine dei giornalisti e alle conseguenze della “sostituzione di personale in sciopero”.
Siamo una categoria disillusa: giornalismo fa rima con precario/a da almeno 15 anni in Italia.
E’ sempre peggio. Ma se non capiamo che siamo tutti sulla stessa barca: gli 8mila che hanno un contratto di lavoro giusto, e i 35mila precari che tengono in piedi la dorsale dell’informazione.
Gli editori vogliono proseguire nella loro filosofia di socializzare le crisi (con ammortizzatori, prepensionamenti, fondi pubblici a go-go), precarizzare il lavoro e tentare in tutti i modi di impedire una rappresentanza alla maggior parte dei giornalisti attivi.
Solitudine, false promesse, comportamenti meschini e tradimenti sono elementi presenti, e con ogni probabilità futuri se non “uniamo i puntini”.
Quello che è stato fatto al Messaggero dà speranza.
Obiettivi comuni, inclusione, qualità del lavoro, rappresentanza e colleganza: proclamare uno sciopero dopo il trattamento che vi ha riservato l’editore è un atto che riscatta tutti, anche chi oggi non ha scioperato perché “non ancora convinto” o impaurito delle conseguenze o per altre mille, comprensibili, ragioni.
Domani uscirà un Messaggero con meno firme, meno pagine dai territori di Lazio, Umbria e Abruzzo.
La conseguenza di non-scioperare oggi è la prosecuzione della storia che avete già visto: arretramenti continui, guerre tra poveri, poche prospettive di crescita e anche umiliazioni di chi pare farvi un favore a farvi lavorare, il vostro editore.
Il segnale non basta: anche chi oggi tra mille dubbi ha scritto, sabato 11 luglio, può scioperare.
Non rispondere al telefono.
Siete coperti sindacalmente, politicamente, socialmente (avete visto quante attestazioni?).
Proseguiamo, insieme, adesso, colleghi de Il Messaggero. Scioperiamo.
Ci vediamo lunedì in Assemblea. Partecipiamo allo sciopero: se no non ci saranno altre occasioni. Ragionate. Non credo nelle categorie assolute di giusto e sbagliato, ma qui siamo dalla parte giusta: della dignità del lavoro, quindi della Costituzione. Daje.
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