È la prima volta, segnalano dal palazzo della Consulta, nella storia della Corte che una sentenza è firmata da tre donne: oltre alla presidente Marta Cartabia, il testo porta la firma della relatrice Silvana Sciarra, mentre e anche il cancelliere è una donna.
La Corte, in particolare, ha dichiarato l’illegittimità costituzionale dell’articolo 4 del d. lgs. n. 23 del 2015 (cosiddetto Jobs Act) là dove fissava l’ammontare dell’indennità in un importo pari a una mensilità dell’ultima retribuzione di riferimento per il calcolo del trattamento di fine rapporto per ogni anno di servizio (si veda il comunicato stampa del 25 giugno).
In linea di continuità con la sentenza n. 194 del 2018, che ha dichiarato l’incostituzionalità del meccanismo di determinazione dell’indennità dovuta per i licenziamenti privi di giusta causa o di giustificato motivo oggettivo o soggettivo (articolo 3 del d.lgs. n. 23 del 2015), la Corte ha ritenuto contrastante con i princìpi di eguaglianza e di ragionevolezza e con la tutela del lavoro in tutte le sue forme l’analogo criterio di commisurazione dell’indennità previsto per il licenziamento affetto da vizi formali o procedurali.
La sentenza spiega che le prescrizioni formali, relative all’obbligo di motivazione del licenziamento e al principio del contraddittorio, «rivestono una essenziale funzione di garanzia, ispirata a valori di civiltà giuridica» e «sono riconducibili al principio di tutela del lavoro, enunciato dagli artt. 4 e 35 Cost.», in quanto si prefiggono di tutelare la dignità del lavoratore.
Il legislatore – sottolinea la Corte – pur potendo modulare diversamente le tutele per il licenziamento illegittimo, non può trascurare «la vasta gamma di variabili che vedono direttamente implicata la persona del lavoratore». Con riferimento all’articolo 3 della Costituzione, la Corte ha osservato che la disciplina in esame, nell’appiattire «la valutazione del giudice sulla verifica della sola anzianità di servizio», determina «un’indebita omologazione di situazioni che, nell’esperienza concreta, sono profondamente diverse» e si pone dunque in contrasto con il principio di eguaglianza. La Corte ha ravvisato, inoltre, la violazione del principio di ragionevolezza, che si esprime come esigenza di una tutela adeguata: occorre attribuire «il doveroso rilievo al fatto, in sé sempre traumatico, dell’espulsione del lavoratore», attraverso il riconoscimento del giusto ristoro e la salvaguardia di una efficace funzione dissuasiva della tutela indennitaria.
La rigida predeterminazione dell’indennità, sulla base della sola anzianità di servizio, vìola anche gli articoli 4, primo comma, e 35, primo comma, della Costituzione, che tutelano «la giusta procedura di licenziamento, diretta a salvaguardare pienamente la dignità della persona del lavoratore». Il giudice, nel rispetto delle soglie oggi fissate dal legislatore, determinerà l’indennità tenendo conto innanzitutto dell’anzianità di servizio, «che rappresenta la base di partenza della valutazione. In chiave correttiva, con apprezzamento congruamente motivato, il giudice potrà ponderare anche altri criteri desumibili dal sistema, che concorrano a rendere la determinazione dell’indennità aderente alle particolarità del caso concreto». Potranno venire in rilievo, in tale valutazione, anche la gravità delle violazioni, il numero degli occupati, le dimensioni dell’impresa, il comportamento e le condizioni delle parti.
La Corte ha infine invitato il legislatore a «ricomporre secondo linee coerenti una normativa di importanza essenziale, che vede concorrere discipline eterogenee, frutto dell’avvicendarsi di interventi frammentari». (Ansa)