Dopo tre giorni di sciopero, i giornalisti non dipendenti del quotidiano chiedono all’editore Caltagirone «di sedersi a un tavolo, di applicare i minimi tariffari previsti dal contratto Fieg-Fnsi e di ritirare il taglio dei già miseri compensi» e alle parti sociali e al governo «di cancellare lo strumento delle collaborazioni coordinate e continuative e delle finte partite Iva».
Dopo tre giorni di sciopero, a tre settimane dalla costituzione dell’Assemblea, non si ferma la lotta dei giornalisti non dipendenti del Messaggero. Il 15 giugno 2020 i giornalisti hanno ricevuto dall’editore Caltagirone la “proposta” unilaterale di un taglio ai compensi del 20-30 per cento, da accettare entro il 14 luglio. «Alla proposta di articoli pagati sette euro lordi, spese comprese, abbiamo risposto, collettivamente, di valere di più», ricordano i collaboratori, che il 23 giugno, con il supporto della Fnsi, hanno aperto una vertenza per chiedere all’azienda di sedersi a un tavolo, di applicare i minimi tariffari previsti dal contratto Fieg-Fnsi e di «ritirare la proposta unilaterale di taglio dei già miseri compensi».
Le richieste di incontro sono finora cadute nel vuoto. «Anche un’interrogazione del presidente della commissione Cultura della Camera dei Deputati, Luigi Gallo, rivolta al presidente del Consiglio, Giuseppe Conte, e alla ministra del Lavoro, Nunzia Catalfo, non è stata sufficiente per farci ascoltare dal Gruppo Caltagirone. È questo un far-west? Le regole di rappresentanza, il minimo sindacale dell’applicazione delle tariffe minime contenute nel contratto per i co.co.co. non valgono per gli editori italiani, e per il Gruppo Caltagirone in particolare?», incalzano i giornalisti.
L’azienda, spiegano, «sostiene che siamo singole particelle di “capitale umano”, totalmente sconnesse l’una dall’altra. La realtà è che facciamo tutti lo stesso lavoro, per lo stesso editore, quotidianamente: sottopagati, senza un inquadramento corretto, senza diritti e senza rappresentanza sindacale – secondo il nostro “padrone”».
I lavoratori rivendicano la loro rappresentanza e rinnovano «l’invito all’editore ad aprire il confronto. Migliaia di collaboratori, co.co.co. e partite Iva – aggiungono – lavorano formalmente come autonomi per l’editoria italiana. Ma di fatto sono altro: invisibili, un esercito di riserva in cui la “guerra tra poveri” la fa da padrone. Lavoriamo otto, dieci ore al giorno e alla fine del mese arrivano 800 euro – e saranno 650, con i tagli al Messaggero, tra qualche giorno. Noi ci siamo trovati di fronte a una “emergenza”, abbiamo deciso di provare a mettere in campo l’unica arma costituzionalmente garantita a ogni lavoratore: lo sciopero. Abbiamo ottenuto qualche scampolo di visibilità per le nostre condizioni di lavoro, ringraziamo delle solidarietà ricevute; ma non siamo riusciti, al momento, a trovare una compattezza sufficiente per farci ascoltare. Questo fa rabbia e ci porta a non arretrare di un passo e di proseguire nella vertenza».
I collaboratori del Messaggero confermano, dunque, lo stato di agitazione. E proseguiranno la vertenza «con tutti i mezzi a disposizione dei lavoratori – anticipano – compreso lo sciopero a sorpresa e le vertenze di lavoro individuali. L’azienda ci concede ancora poche ore per l’accettazione di un “patto leonino”. Tale proposta era, è, e rimarrà irricevibile e al di fuori di ogni accordo contrattuale. Il sistema capzioso con cui si pongono in condizioni di ricattabilità i collaboratori, ovvero l’impossibilità di accesso all’area di invio dei pezzi nel caso di non accettazione, configura un “ricatto di lavoro”. Da “braccianti dell’informazione”».
L’Assemblea, prosegue la nota dei giornalisti, «si riserva altre azioni di lotta», annuncia «l’avvio di un percorso con l’obiettivo di avviare una fase di cause di lavoro individuali nell’ambito della vertenza collettiva», rinnova l’invito alle parti sociali e al governo «affinché trovi applicazione la legge sull’Equo compenso» e chiede «con forza di aprire un tavolo di crisi del Messaggero e di cancellare lo strumento delle collaborazioni coordinate e continuative e delle finte partite Iva, strumento di sfruttamento legalizzato – concludono i collaboratori del Messaggero – in mano agli editori».